
C'è una differenza sottile, ma decisiva, tra scegliere e non opporsi. Nel dibattito sul Trattamento di Fine Rapporto, questa differenza diventa il cuore del problema. Perché il TFR non è solo una posta contabile o una variabile previdenziale: è una riserva di tempo, un margine di sicurezza che accompagna il lavoratore lungo tutta la vita attiva. Intervenire su di esso, anche senza toccarne formalmente la titolarità, significa incidere sul modo in cui lo Stato concepisce l'autonomia delle persone.
La legge di bilancio riapre la finestra del silenzio-assenso per la destinazione del TFR alla previdenza complementare, estendendola ai lavoratori che finora non avevano esercitato alcuna scelta.
Un meccanismo in cui il TFR può essere destinato automaticamente alla previdenza complementare in assenza di una scelta esplicita contraria. Nulla viene imposto apertamente; eppure molto viene orientato. Il punto non è la previdenza integrativa in sé, che può essere uno strumento utile e legittimo. Il punto è il metodo: trasformare il silenzio in consenso.
Il TFR, storicamente, è stato percepito come una sorta di ultima difesa: una somma certa, accumulata nel tempo, disponibile nei passaggi critici della vita – la fine di un lavoro, una transizione, una difficoltà improvvisa. Spostarlo automaticamente in un circuito diverso non equivale a sottrarlo, ma ne modifica la natura simbolica. Da riserva personale diventa parte di una strategia sistemica, costruita più sulle esigenze di equilibrio macro che sui bisogni micro delle persone.
Sul piano giuridico, la misura si muove entro confini formalmente corretti: la scelta resta possibile, il diritto non viene abolito. Ma il diritto non è solo ciò che è consentito; è anche ciò che è effettivamente esercitabile. Quando la decisione richiede un atto consapevole per non aderire, la libertà resta sulla carta, mentre nella pratica si assottiglia.
Il meccanismo del silenzio-assenso è uno strumento noto al diritto amministrativo, pensato per semplificare procedimenti e ridurre inerzie. Trasportarlo nell'ambito delle scelte previdenziali individuali, però, apre una questione più delicata: può una decisione che incide sul futuro economico di una persona essere affidata alla sua non-azione"
La domanda non è tecnica, ma culturale.
Dal punto di vista psicologico, il TFR rappresenta una forma di controllo sul futuro. Non tanto per il suo ammontare, quanto per la sua prevedibilità. Sapere che esiste, che cresce lentamente, che è lì. Spostarlo in un ambito percepito come più complesso – soggetto a rendimenti, oscillazioni, regole meno intuitive – può generare un senso di perdita di controllo, soprattutto tra i lavoratori meno informati o più vulnerabili.
Il rischio è che la previdenza complementare venga vissuta non come una scelta responsabile, ma come una deriva passiva, subita più che voluta. E quando le decisioni cruciali diventano opache, cresce la diffidenza. Non verso lo strumento in sé, ma verso l'architettura che lo impone senza dirlo.
C'è un paradosso sottile: si chiede ai cittadini di essere previdenti, ma li si solleva dall'atto stesso del decidere. Come se la maturità economica potesse essere indotta per automatismo.
Sul piano sociale, il meccanismo del silenzio-assenso non colpisce tutti allo stesso modo. Chi ha competenze finanziarie, consulenti, tempo e strumenti per informarsi saprà scegliere consapevolmente. Chi non li ha, tenderà ad accettare l'opzione di default. Si crea così una asimmetria invisibile, che non divide per reddito in modo diretto, ma per capacità di orientarsi nel sistema.
Il TFR automatico nei fondi rischia di diventare una scelta dei meno attrezzati, mentre i più consapevoli manterranno il controllo. È una dinamica nota nelle politiche pubbliche basate sui nudge: piccoli incentivi gentili che, però, producono effetti molto concreti sulle disuguaglianze.
Il nodo del TFR non è solo previdenziale. È una questione di metodo democratico. Orientare le scelte senza dichiararlo apertamente può essere efficiente, ma non sempre è giusto. La democrazia non vive solo di risultati, ma di processi comprensibili e condivisi.
Forse la domanda da porsi non è se la previdenza complementare vada incentivata. Ma se sia corretto farlo trasformando il silenzio in assenso, soprattutto quando in gioco c'è una delle poche certezze materiali che accompagnano il lavoratore lungo tutta la sua vita attiva.
Il TFR non è solo denaro differito. È una promessa di autonomia.
E ogni promessa, per restare credibile, ha bisogno di una scelta vera, non di un consenso presunto.

