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Notizie Giuridiche

» Matrimoni tra lo stesso sesso: la rivoluzione silenziosa
29/11/2025 - Erik Stefano Carlo Bodda


La sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 25 novembre 2025 nella causa C-713/23 segna un momento di svolta epocale nel panorama giuridico europeo, destinato a ridefinire gli equilibri tra sovranità nazionale e diritti fondamentali in materia di riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Come professionista che ha seguito con attenzione l'evoluzione di questa materia, posso affermare senza esitazione che ci troviamo di fronte a una decisione che cambierà per sempre il modo in cui gli Stati membri dell'Unione dovranno confrontarsi con la circolazione degli status personali.

Il caso paradigmatico e la sua portata sistemica

La vicenda esaminata dalla Corte presenta caratteristiche che la rendono emblematica delle tensioni che attraversano l'Europa contemporanea. Due cittadini polacchi, uno dei quali anche tedesco, si sposano a Berlino nel 2018 e successivamente richiedono la trascrizione dell'atto matrimoniale nei registri dello stato civile polacchi per potersi trasferire in Polonia come coppia coniugata.

Il rifiuto delle autorità polacche, motivato dall'incompatibilità del matrimonio omosessuale con il diritto nazionale, innesca il meccanismo del rinvio pregiudiziale che consente alla Corte di pronunciarsi su una questione di portata generale.

La genialità della decisione risiede nella sua capacità di conciliare principi apparentemente inconciliabili: da un lato il rispetto della sovranità nazionale in materia matrimoniale, dall'altro la tutela dei diritti fondamentali derivanti dalla cittadinanza europea.

La Corte opera una distinzione fondamentale tra il diritto degli Stati membri di disciplinare autonomamente l'istituto matrimoniale e l'obbligo di riconoscere gli status legalmente acquisiti in altri Stati membri quando ciò sia necessario per garantire l'effettivo esercizio della libertà di circolazione.

L'architettura giuridica della decisione

La costruzione argomentativa della Corte si fonda su una lettura integrata degli articoli 20 e 21 TFUE, che disciplinano la cittadinanza europea e la libertà di circolazione, interpretati alla luce degli articoli 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Questa metodologia ermeneutica non è casuale: essa consente di ancorare l'obbligo di riconoscimento non a una presunta evoluzione del concetto di matrimonio a livello europeo, ma ai diritti derivanti dalla cittadinanza dell'Unione.

Il ragionamento della Corte è di una eleganza giuridica cristallina: il riconoscimento richiesto è "funzionale e limitato ai diritti derivanti dalla cittadinanza dell'Unione", non comportando alcuna imposizione agli Stati membri di modificare la propria disciplina matrimoniale interna. Questa distinzione rappresenta il cuore dell'innovazione giurisprudenziale e dimostra la maturità raggiunta dalla giurisprudenza europea nel bilanciare esigenze apparentemente contrapposte.

Il confronto con l'esperienza italiana: un percorso accidentato

L'Italia ha vissuto negli ultimi anni un percorso particolarmente tortuoso in materia di riconoscimento delle unioni omoaffettive, caratterizzato da una giurisprudenza oscillante e da interventi legislativi che hanno tentato di trovare un equilibrio tra tradizione e innovazione.

La legge n. 76 del 2016 ha introdotto l'istituto dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, rappresentando un compromesso politico che ha evitato l'estensione del matrimonio alle coppie omosessuali pur garantendo loro un sistema di tutele sostanzialmente equivalente.

La giurisprudenza italiana ha attraversato diverse fasi evolutive. Il Consiglio di Stato, con le sentenze nn. 4897, 4898 e 4899 del 2015, aveva confermato l'intrascrivibilità dei matrimoni omosessuali celebrati all'estero, rilevando che "la Corte di Strasburgo ha espressamente e chiaramente negato la sussistenza e, quindi, a fortiori, la violazione di tale (presunto) diritto [al matrimonio omosessuale], limitandosi ad imporre allo Stato di assicurare una tutela giuridica alle unioni omosessuali".

Tuttavia, già la Cassazione civile, con la sentenza n. 4184 del 2012, aveva operato un significativo cambio di paradigma, superando il precedente orientamento che qualificava i matrimoni omosessuali come "inesistenti" e riconoscendo che "l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, rientra nelle formazioni sociali tutelate dall'articolo 2 della Costituzione e nella nozione di vita familiare di cui all'articolo 8 della Convenzione Europea".

Le implicazioni procedurali e la questione della trascrizione

Un aspetto particolarmente significativo della decisione europea riguarda la dimensione procedurale del riconoscimento. La Corte ha evidenziato come, nel caso polacco, la trascrizione rappresenti l'unico strumento previsto dall'ordinamento per riconoscere un atto di stato civile straniero, rendendo quindi l'esclusione delle coppie dello stesso sesso una violazione dei principi di effettività e non discriminazione.

Questo ragionamento assume particolare rilevanza nel contesto italiano, dove l'art. 32-bis della legge n. 218 del 1995 prevede che "il matrimonio contratto all'estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell'unione civile regolata dalla legge italiana". Tuttavia, la Cassazione civile, con la sentenza n. 11696 del 2018, ha chiarito che tale meccanismo di conversione si applica esclusivamente ai matrimoni contratti all'estero tra due cittadini italiani e non ai matrimoni "misti".

La rivoluzione del principio di non discriminazione

La decisione della CGUE introduce una lettura innovativa del principio di non discriminazione basata sull'orientamento sessuale. La Corte ha evidenziato che il mancato riconoscimento costringe i coniugi a vivere nel loro Stato d'origine come non coniugati, compromettendo aspetti essenziali della vita privata e familiare e generando incertezza giuridica in violazione del divieto di discriminazione.

Questo approccio rappresenta un'evoluzione significativa rispetto alla giurisprudenza precedente. La Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 138 del 2010, aveva affermato che la normativa che contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna "non può considerarsi illegittima con riferimento all'art. 3 Cost., perché essa trova fondamento nell'art. 29 Cost. e non dà luogo ad un'irragionevole discriminazione, non potendo le unioni omosessuali essere ritenute omogenee al matrimonio".

La decisione europea sembra invece suggerire che, quando si tratta di riconoscere status legalmente acquisiti in altri Stati membri, il principio di non discriminazione assume una valenza diversa e più penetrante, legata all'esercizio effettivo della libertà di circolazione.

L'impatto sui matrimoni "misti" e la questione della cittadinanza

Una delle questioni più delicate che la decisione europea potrebbe contribuire a risolvere riguarda i matrimoni "misti", ossia quelli contratti tra un cittadino italiano e un cittadino di altro Stato membro dell'Unione. Come evidenziato dalla Cassazione civile nella sentenza n. 11696 del 2018, il meccanismo di conversione previsto dall'art. 32-bis non si applica a tali fattispecie, lasciando scoperta una categoria significativa di situazioni.

La pronuncia della CGUE, enfatizzando che il riconoscimento dello status matrimoniale acquisito all'estero è necessario per garantire l'effettivo esercizio della libertà di circolazione, potrebbe fornire gli strumenti giuridici per superare questa lacuna, particolarmente quando uno dei coniugi sia cittadino di un altro Stato membro dell'Unione.

Le prospettive future e i nodi irrisolti

La decisione della CGUE apre scenari inediti ma lascia anche aperti alcuni interrogativi fondamentali.

In primo luogo, resta da chiarire se l'obbligo di riconoscimento si estenda anche ai matrimoni contratti da cittadini di Stati terzi o se rimanga limitato ai cittadini dell'Unione che esercitano la loro libertà di circolazione.

In secondo luogo, sarà interessante osservare come gli Stati membri reagiranno a questa pronuncia, particolarmente quelli che, come la Polonia, hanno adottato posizioni particolarmente restrittive in materia di diritti LGBTI+. La Corte ha chiarito che l'obbligo di riconoscimento non incide sulla facoltà degli Stati membri di disciplinare autonomamente l'istituto matrimoniale, ma è lecito chiedersi se questa distinzione reggerà alla prova dei fatti.

La dimensione costituzionale italiana e le prospettive di adeguamento

Nel contesto italiano, la decisione europea potrebbe richiedere una riconsiderazione di alcuni orientamenti consolidati. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 170 del 2014, aveva già riconosciuto che le unioni omoaffettive rientrano nelle formazioni sociali tutelate dall'art. 2 della Costituzione, aprendo la strada a forme di tutela giuridica specifiche.

La recente sentenza n. 66 del 2024 ha ulteriormente sviluppato questo filone giurisprudenziale, affermando che "il percorso di sessualità costituisce certa espressione del diritto inviolabile della persona alla propria identità" e che "il diritto della persona di mantenere senza soluzione di continuità la pregressa tutela propria del precedente status riveste natura di diritto inviolabile".

Verso un nuovo equilibrio europeo

La sentenza della CGUE del 25 novembre 2025 rappresenta molto più di una semplice pronuncia giurisprudenziale: essa segna l'emergere di un nuovo paradigma nel rapporto tra sovranità nazionale e diritti fondamentali nell'Unione Europea.

La capacità della Corte di trovare un equilibrio tra il rispetto delle tradizioni giuridiche nazionali e la tutela dei diritti derivanti dalla cittadinanza europea dimostra la maturità raggiunta dal sistema giuridico europeo.

Per l'Italia, questa decisione rappresenta un'opportunità per completare il percorso di modernizzazione iniziato con la legge sulle unioni civili, colmando le lacune ancora esistenti e garantendo piena effettività ai principi di non discriminazione e libera circolazione. Il legislatore italiano dovrà probabilmente intervenire per adeguare la normativa di diritto internazionale privato alle nuove esigenze derivanti dalla giurisprudenza europea, particolarmente per quanto riguarda i matrimoni "misti" e l'applicazione dei principi di libera circolazione.

La vera sfida che ci attende non è tanto quella di adeguare le nostre norme a una decisione europea, quanto quella di comprendere che stiamo assistendo all'emergere di una nuova concezione della cittadinanza europea, fondata non più solo sulla libera circolazione delle merci e dei capitali, ma sulla circolazione degli status personali e dei diritti fondamentali. In questo nuovo scenario, il diritto nazionale e quello europeo non sono più in rapporto gerarchico, ma in rapporto di integrazione funzionale, dove ciascun livello contribuisce alla costruzione di un sistema di tutele sempre più articolato e completo.

La sentenza C-713/23 non è quindi solo una decisione sui matrimoni omosessuali: è una decisione sul futuro dell'Europa e sul tipo di Unione che vogliamo costruire.

Una Unione dove i diritti fondamentali non si fermano alle frontiere nazionali, ma circolano liberamente insieme alle persone che li incarnano. È questa, forse, la più grande rivoluzione silenziosa del nostro tempo.


Erik Stefano Carlo Bodda è Avvocato del foro di Torino, iscritto all'Albo Speciale dei Cassazionisti e delle Giurisdizioni Superiori, è stato Abogado presso il Colegio de Madrid (ICAM) ed iscritto presso il Barreau de Paris.

Ha partecipato in qualità di osservatore a missioni internazionali.

E' fondatore dello studio legale BODDA & PARTNERS.

[Fonte: www.studiocataldi.it]

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