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Notizie Giuridiche

» Whistleblowing e mobbing nella Pubblica Amministrazione
20/11/2025 - Aldo Andrea Presutto

1. Introduzione

Il fenomeno del whistleblowing e la conseguente tutela del segnalante rappresentano, nel quadro contemporaneo delle politiche di integrità pubblica, un elemento ormai strutturale e imprescindibile per il buon andamento e l'imparzialità della Pubblica Amministrazione. La protezione di coloro che, agendo nell'interesse generale, decidono di segnalare condotte illecite o irregolarità suscettibili di ledere il ptrimonio pubblico o compromettere la legalità dell'azione amministrativa costituisce non solo un presidio giuridico, ma anche uno strumento di promozione culturale della trasparenza. Tale prospettiva si iscrive in un più ampio processo di europeizzazione del diritto amministrativo e del diritto del lavoro pubblico, avviato con la Direttiva (UE) 2019/1937, che ha imposto agli Stati membri l'adozione di standard minimi comuni di protezione del whistleblower.

In Italia, un primo riconoscimento normativo si rinviene nell'art. 54-bis del d.lgs. 165/2001 – introdotto nel 2012 ed oggetto di successivi interventi modificativi – volto a predisporre un sistema embrionale di protezione del segnalante nel settore pubblico. Tuttavia, è solo con il d.lgs. 24/2023, di recepimento della direttiva europea, che il legislatore nazionale ha dato vita a un corpus regolatorio organico, maggiormente strutturato e coerente, fondato su un ampliamento del perimetro soggettivo e oggettivo di tutela, su un rafforzamento delle garanzie procedimentali, nonché su una più incisiva disciplina delle condotte ritorsive e dei meccanismi sanzionatori.

Nondimeno, l'effettività di tale protezione non può essere affidata al solo dato normativo: essa dipende, in misura significativa, dalla declinazione applicativa operata dalla giurisprudenza, chiamata a individuare criteri interpretativi capaci di scongiurare forme, anche sofisticate, di ritorsione nei confronti dei segnalanti. In assenza di un intervento giurisprudenziale rigoroso, il sistema rischierebbe infatti di rimanere formalmente avanzato, ma sostanzialmente vulnerabile.

In questo contesto si colloca la sentenza n. 951/2025 del Tribunale di Bergamo, Sezione Lavoro, destinata ad assumere, con ogni probabilità, un ruolo di rilievo nell'evoluzione della giurisprudenza nazionale in materia di whistleblowing. Il caso oggetto del giudizio riguardava un'agente di polizia locale che aveva denunciato all'ANAC e alla Guardia di Finanza gravi irregolarità relative alla gestione di fondi pubblici e all'attribuzione di benefici economici. A seguito di tali segnalazioni, la lavoratrice era stata destinataria di un complesso di misure chiaramente connotate da un intento ritorsivo: l'avvio di procedimenti disciplinari privi di fondamento, un demansionamento a funzioni marginali e meramente esecutive, nonché l'attribuzione di una valutazione professionale fortemente negativa (58/100), in palese discontinuità rispetto al precedente e consolidato percorso professionale.

Il Tribunale ha articolato una motivazione di notevole spessore sistematico, fondata su due principi cardine. In primo luogo, ha riaffermato la nullità radicale e insanabile di ogni atto datoriale, anche solo indirettamente, riconducibile a intenti ritorsivi in danno del segnalante, riconoscendone la dimensione di nullità "di protezione", tipica delle norme poste a presidio di diritti fondamentali. In secondo luogo, ha applicato con rigore il principio della inversione dell'onere della prova, imponendo all'amministrazione l'obbligo di dimostrare l'assoluta autonomia causale delle misure adottate rispetto all'attività di segnalazione. Tale impostazione, coerente con la logica del d.lgs. 24/2023, estende la tutela del segnalante a ogni dimensione del rapporto di lavoro, incluse le valutazioni di performance, sovente utilizzate – nella prassi – come strumenti subdoli di pressione o marginalizzazione.

Un ulteriore profilo di rilievo della sentenza risiede nel richiamo all'art. 2087 c.c., che il giudice utilizza per rafforzare l'obbligo datoriale di garantire un contesto lavorativo improntato alla sicurezza, alla salute psicofisica e al rispetto della dignità personale. In tal modo, la pronuncia opera un'interessante integrazione tra tutela del whistleblower e principi generali di diritto del lavoro, elevando la protezione da ritorsioni a espressione qualificata del dovere di protezione datoriale.

L'obiettivo del presente contributo è duplice: da un lato, ricostruire criticamente il percorso argomentativo seguito dal Tribunale di Bergamo, mettendone in luce gli elementi innovativi; dall'altro, valutare le implicazioni sistemiche della decisione, sia sul piano dell'evoluzione della giurisprudenza nazionale, sia su quello del consolidamento di una cultura amministrativa orientata alla legalità sostanziale e alla responsabilizzazione degli apparati pubblici. La sentenza, infatti, non si limita a risolvere la singola controversia, ma offre un modello interpretativo idoneo a incidere in profondità sulle dinamiche organizzative e sulla tutela dei diritti fondamentali nel settore pubblico, contribuendo a rafforzare la fiducia dei cittadini nella trasparenza e nell'integrità delle istituzioni.

2. Tutela del segnalante e responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.: il contributo del Tribunale di Bergamo

Il tema del whistleblowing rappresenta, ormai da diversi anni, uno dei cardini delle politiche europee e nazionali in materia di integrità pubblica, anticorruzione e tutela dei diritti dei lavoratori. La progressiva affermazione di questo istituto trova fondamento nella consapevolezza che la segnalazione interna o esterna di irregolarità costituisce un meccanismo indispensabile per prevenire e contrastare fenomeni distorsivi dell'azione amministrativa. Tuttavia, l'effettività della disciplina non discende unicamente dalla qualità della normativa – pur significativamente rafforzata con il d.lgs. 24/2023, attuativo della Direttiva (UE) 2019/1937 – ma richiede un intervento giurisprudenziale capace di dare concretezza alle garanzie previste, soprattutto quando esse entrano in tensione con prassi ritorsive ancora persistenti all'interno delle amministrazioni pubbliche.

In questo scenario si inserisce la sentenza n. 951/2025 del Tribunale di Bergamo, Sezione Lavoro, che appare destinata a rappresentare un punto di svolta nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme a tutela del segnalante. La controversia riguardava un'agente di polizia locale che aveva denunciato all'ANAC e alla Guardia di Finanza una serie di anomalie nella gestione di fondi pubblici e nell'attribuzione di benefici economici. A tali segnalazioni avevano fatto seguito, in modo temporalmente ravvicinato e logicamente coerente, una pluralità di condotte datoriali di segno negativo: avvio di procedimenti disciplinari privi di consistenza fattuale, dequalificazione professionale mediante assegnazione a compiti meramente esecutivi e una valutazione annuale profondamente penalizzante, del tutto avulsa dal precedente andamento professionale della dipendente.

Il Tribunale ha, in primo luogo, riconosciuto la qualifica di whistleblower alla lavoratrice, ravvisando nella sua condotta i requisiti di buona fede, ragionevolezza e pertinenza richiesti dalla normativa. Ha quindi dichiarato la nullità degli atti ritorsivi, facendo applicazione rigorosa del meccanismo di inversione dell'onere della prova previsto dall'art. 54-bis del d.lgs. 165/2001 (oggi ripreso e ampliato dal d.lgs. 24/2023). L'amministrazione non è stata in grado di dimostrare che le misure adottate fossero sorrette da ragioni oggettive e indipendenti dalle segnalazioni: l'assenza di tale prova ha condotto il giudice a qualificare gli atti come intrinsecamente ritorsivi e, pertanto, radicalmente nulli.

Un ulteriore profilo qualificante della decisione risiede nell'impiego dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura dell'ordinamento giuslavoristico in tema di tutela della salute e della dignità del lavoratore. Il giudice ha accertato che la condotta dell'amministrazione aveva determinato la creazione e il perdurare di un ambiente lavorativo nocivo, stressogeno e lesivo della dignità personale, in violazione del dovere datoriale di prevenire situazioni idonee a compromettere l'integrità psicofisica del dipendente. Tale uso combinato della disciplina sul whistleblowing e dei principi generali di tutela della persona nel rapporto di lavoro rafforza in modo significativo il perimetro protettivo a favore del segnalante.

La sentenza si distingue, inoltre, per aver ricostruito l'insieme degli episodi contestati non come meri atti isolati, ma come elementi di un più ampio quadro di isolamento, svalutazione professionale e ostacolo operativo, riconducibile alle dinamiche del mobbing. Pur senza necessariamente individuare un disegno persecutorio unitario – elemento talvolta richiesto in dottrina e giurisprudenza – il Tribunale ha sottolineato che la responsabilità datoriale può comunque configurarsi ogniqualvolta l'ambiente di lavoro divenga fonte di logorio e compromissione psicologica, a prescindere dalla volontà soggettiva di nuocere. In questa prospettiva, la sentenza valorizza un approccio sostanzialistico all'istituto del mobbing, centrato più sugli effetti che sull'intenzionalità.

La portata innovativa della pronuncia va ben oltre il caso concreto. Il Tribunale di Bergamo afferma, in modo inequivoco, che la tutela del segnalante non deve essere limitata alle misure tradizionalmente considerate come ritorsive – quali il licenziamento o le sanzioni disciplinari – ma deve estendersi a tutti gli atti organizzativi idonei a incidere sulle condizioni di lavoro, incluse le valutazioni di performance, le modifiche delle mansioni e le scelte gestionali apparentemente neutre. Tali atti, se adottati in correlazione temporale e causale con la segnalazione, assumono rilevanza invalidante e configurano una responsabilità datoriale piena.

In conclusione, la decisione bergamasca contribuisce a delineare un modello avanzato di tutela del whistleblower, fondato su un'interpretazione evolutiva della normativa e su un'applicazione rigorosa dei principi giuslavoristici in materia di protezione della persona. Essa rappresenta un monito alle amministrazioni pubbliche, chiamate non solo ad astenersi da condotte ritorsive, ma anche a garantire un ambiente lavorativo che valorizzi il ruolo civico del segnalante, riconoscendone la funzione di presidio dell'interesse collettivo. In un contesto in cui il whistleblower è ancora spesso percepito come figura scomoda o destabilizzante, la sentenza riafferma che la legalità amministrativa è un bene pubblico che merita una protezione effettiva, concreta e sistemica.

3. Fatti di causa – Versione discorsiva

La vicenda portata all'attenzione del Tribunale di Bergamo prende avvio dalle segnalazioni effettuate da un'agente di polizia locale, che aveva denunciato all'ANAC, alla Guardia di Finanza e poi alla Procura alcune irregolarità nella gestione dei fondi pubblici, dei benefici economici e dei premi di produttività del Corpo. Dopo questi esposti, secondo quanto riferito dalla lavoratrice, il suo contesto professionale ha subito un brusco peggioramento. Sono stati avviati procedimenti disciplinari privi di un reale fondamento, le è stata revocata l'arma di servizio, è stata assegnata a compiti inferiori e quasi meramente esecutivi e le è stata attribuita una valutazione professionale estremamente negativa, pari a 58 centesimi, in netto contrasto con le valutazioni eccellenti che aveva sempre ottenuto.

Parallelamente, la ricorrente ha denunciato un clima lavorativo diventato via via più ostile. Ha riferito di insulti ripetuti da parte del comandante e di alcuni colleghi, di un progressivo isolamento dalle attività di gruppo, di vari ostacoli pratici posti al suo lavoro – come la mancata consegna delle password necessarie per svolgere le funzioni assegnate – e persino di un'aggressione fisica subita durante un servizio esterno. I convenuti hanno respinto integralmente questa ricostruzione, dichiarando che non vi fosse alcun mobbing e che le misure adottate fossero pienamente legittime e giustificate da esigenze organizzative. Le compagnie assicurative, a loro volta, hanno sostenuto che le polizze non fossero operative in relazione ai fatti denunciati, trattandosi, a loro dire, di condotte dolose o comunque escluse dalle condizioni contrattuali.

3.1 Motivazione del Tribunale

Il Tribunale ha riconosciuto alla lavoratrice la qualifica di whistleblower, osservando che le segnalazioni da lei effettuate rientravano esattamente nel quadro previsto dall'art. 54-bis del d.lgs. 165 del 2001. Questo riconoscimento ha determinato l'applicazione del regime di protezione contro le ritorsioni, con la conseguente dichiarazione di nullità dei provvedimenti che si erano rivelati collegati temporalmente e logicamente alle segnalazioni. Sono così stati dichiarati nulli i procedimenti disciplinari, il demansionamento e la valutazione negativa, mentre il ritiro dell'arma di servizio è stato ritenuto giustificato da motivazioni mediche e quindi estraneo alla logica ritorsiva.

Analizzando il contesto in cui la lavoratrice operava, il giudice ha accertato la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 del codice civile. La ricostruzione complessiva delle prove – in particolare le testimonianze e gli accertamenti medico-legali – ha mostrato che l'amministrazione non aveva garantito un ambiente sano e rispettoso, permettendo che si consolidasse un clima di tensione, isolamento e stress. Il Tribunale ha precisato che il mobbing, in senso tecnico, richiede un disegno persecutorio unitario, ma ha anche sottolineato che la responsabilità del datore di lavoro può sorgere indipendentemente da tale requisito, ogni volta che l'ambiente diventa ostile e lesivo della dignità del dipendente e il datore non adotta misure idonee a prevenire o rimuovere tali situazioni.

3.2 Principi di diritto affermati

La sentenza afferma alcuni principi che assumono un rilievo significativo non solo per il caso specifico, ma anche per l'interpretazione futura della normativa sul whistleblowing. Il primo riguarda l'inversione dell'onere della prova: quando un lavoratore effettua una segnalazione tutelata, spetta all'amministrazione dimostrare che i provvedimenti assunti nei suoi confronti sono privi di qualsiasi collegamento con quella segnalazione. Se questa dimostrazione non viene fornita, i provvedimenti devono essere considerati ritorsivi e quindi nulli.

Il giudice chiarisce poi che la protezione del segnalante non si limita agli atti più gravi, come il licenziamento, ma riguarda tutte quelle misure organizzative che possono incidere negativamente sulle condizioni di lavoro, anche se formalmente presentate come scelte gestionali. Le valutazioni di performance, l'assegnazione a mansioni inferiori e altri provvedimenti apparentemente neutri possono essere strumenti ritorsivi e, se collegati alla segnalazione, devono essere annullati.

Infine, il Tribunale valorizza il ruolo delle prove testimoniali e medico-legali, che si sono rivelate essenziali per ricostruire il clima lavorativo e per documentare le conseguenze sulla salute psicofisica della ricorrente. Da ciò emerge una visione ampia della responsabilità datoriale, che non si esaurisce nella prevenzione degli infortuni o delle malattie professionali, ma comprende la tutela della dignità, del benessere psicologico e delle condizioni ambientali in cui il lavoratore opera.

4. Implicazioni pratiche

La decisione del Tribunale di Bergamo produce ricadute significative sul piano applicativo e offre indicazioni preziose sia per la gestione amministrativa sia per le dinamiche giuslavoristiche all'interno delle pubbliche amministrazioni. Uno dei primi effetti riguarda il rafforzamento concreto della protezione riservata ai dipendenti pubblici che decidono di segnalare irregolarità. La sentenza, infatti, conferma che la tutela del whistleblower non si esaurisce nelle ipotesi più estreme, come il licenziamento, ma si estende a ogni intervento organizzativo che possa essere utilizzato in chiave ritorsiva. Ciò comporta un ampliamento della sfera di garanzia, che abbraccia non solo i provvedimenti disciplinari, ma anche le valutazioni di performance, l'assegnazione delle mansioni e qualsiasi modifica dell'assetto lavorativo capace di incidere in modo penalizzante sulla posizione del segnalante.

Un altro profilo di grande rilievo riguarda la necessità, per le amministrazioni pubbliche, di assicurare una tracciabilità puntuale e trasparente delle decisioni assunte. L'inversione dell'onere della prova impone infatti al datore di lavoro di dimostrare che ogni scelta organizzativa adottata nei confronti del whistleblower è sorretta da ragioni obiettive e indipendenti dalla segnalazione. Questo obbligo di motivazione rafforzata rende indispensabile una gestione documentale accurata, che permetta di ricostruire il processo decisionale e di dimostrare la correttezza dell'azione amministrativa in caso di contestazioni.

La sentenza fornisce inoltre un chiarimento rilevante sul rapporto tra responsabilità datoriale e condizioni ambientali di lavoro. Il giudice ha evidenziato come la violazione dell'art. 2087 del codice civile possa configurarsi anche quando non sia individuabile un disegno persecutorio unitario, nel senso tecnico proprio del mobbing. È sufficiente che l'ambiente di lavoro si presenti deteriorato, ostile o stressogeno, e che l'amministrazione non abbia adottato le misure necessarie per prevenire o contrastare tale situazione. Questa impostazione impone ai datori pubblici un attento monitoraggio del clima lavorativo e una gestione più strutturata delle relazioni interne, poiché la responsabilità può derivare anche dall'inerzia o dall'incapacità di garantire un contesto rispettoso della dignità personale.

Un'ulteriore implicazione riguarda l'ambito assicurativo. Nel caso esaminato, le compagnie hanno sollevato eccezioni legate ai limiti di copertura, sostenendo l'inoperatività delle polizze in presenza di condotte dolose o comunque escluse dai contratti. La vicenda dimostra come i contenziosi connessi al whistleblowing e alle responsabilità per ambiente ostile possano intrecciarsi con profili assicurativi complessi, rendendo necessaria una maggiore chiarezza nella configurazione dei rischi e delle esclusioni. Ciò suggerisce alle amministrazioni l'opportunità di verificare con attenzione le proprie coperture, di valutarne l'adeguatezza rispetto ai possibili scenari di responsabilità e di prevenire future controversie definendo contratti assicurativi maggiormente aderenti alle esigenze operative.

Nel complesso, la sentenza contribuisce a delineare un sistema di tutela più saldo e coerente, che non si limita a sanzionare gli atti ritorsivi ma invita le amministrazioni a riconsiderare in modo più ampio la qualità dell'ambiente di lavoro, la trasparenza dei processi decisionali e l'adeguatezza degli strumenti assicurativi a presidio delle responsabilità datoriali.

5. Conclusioni – Versione discorsiva e accademica

La sentenza n. 951/2025 del Tribunale di Bergamo si impone come una decisione di particolare rilievo, sia per la nettezza delle affermazioni svolte sia per la coerenza con cui viene applicata la disciplina sul whistleblowing all'interno della Pubblica Amministrazione. Il giudice bergamasco ha delineato un quadro chiaro e rigoroso, riconoscendo la piena qualifica di segnalante alla lavoratrice e affermando la nullità degli atti posti in essere in funzione ritorsiva. Di altrettanta importanza è il riconoscimento della responsabilità datoriale derivante dal mantenimento di un ambiente lavorativo ostile, che ha consentito il protrarsi di comportamenti lesivi della dignità e della salute della dipendente. Questa integrazione tra tutela del whistleblower e obbligo generale di protezione ex art. 2087 c.c. conferisce alla pronuncia una portata sistemica non trascurabile.

La decisione si distingue anche per l'attenzione riservata alla dimensione probatoria, elemento cruciale in questo ambito. Il ricorso all'inversione dell'onere della prova, previsto dalla normativa in materia di segnalazioni, ha reso evidente la difficoltà per l'amministrazione di giustificare le misure adottate come indipendenti dalla denuncia degli illeciti. Il giudice non solo ha applicato con rigore tale principio, ma ha mostrato come esso operi concretamente nella valutazione delle condotte ritorsive, anche quando queste si manifestino attraverso strumenti organizzativi apparentemente neutri, quali le valutazioni di performance o l'assegnazione di mansioni inferiori. In questo senso, la sentenza costituisce un monito significativo per gli enti pubblici, chiamati a garantire la massima trasparenza e tracciabilità nelle loro decisioni.

Il valore della pronuncia risiede, inoltre, nella sua capacità di fungere da punto di riferimento per la futura evoluzione della tutela dei whistleblower. Essa chiarisce come la segnalazione di irregolarità non debba essere interpretata come gesto di rottura o di conflitto interno, bensì come contributo essenziale alla salvaguardia dell'interesse collettivo e alla promozione dell'integrità amministrativa. In tal modo, la sentenza contribuisce a ridimensionare la percezione distorta del segnalante quale figura scomoda o destabilizzante, valorizzandone invece la funzione pubblicistica e il ruolo nella prevenzione della corruzione.

Sul piano più generale, la decisione apre la strada a ulteriori riflessioni, sia normative sia giurisprudenziali. Da un lato emerge l'esigenza di armonizzare sempre più strettamente la disciplina italiana con quella europea, assicurando una protezione effettiva e omogenea dei segnalanti. Dall'altro, si delinea la necessità di affinare gli strumenti probatori, così da contrastare le forme più subdole di ritorsione, spesso celate dietro scelte organizzative formalmente legittime. La capacità di riconoscere tali dinamiche rappresenta un passaggio fondamentale per evitare che la tutela del whistleblower venga svuotata nella pratica.

In conclusione, la sentenza del Tribunale di Bergamo conferma il ruolo cruciale della giurisprudenza di merito nella costruzione di una cultura della legalità realmente operativa all'interno della Pubblica Amministrazione. È attraverso decisioni come questa che si consolidano i principi di trasparenza, correttezza e responsabilità, e che si rafforza la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. La protezione del whistleblower, come dimostra il caso esaminato, non è soltanto una garanzia individuale, ma un presidio indispensabile per l'integrità dell'azione amministrativa e, in ultima analisi, per la tutela dell'interesse pubblico.

[Fonte: www.studiocataldi.it]

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