
La Corte di cassazione ribadisce che, quando un ricorso introduce un giudizio che non poteva essere avviato, il contributo unificato deve essere pagato in misura doppia. La soluzione viene giustificata come risposta al dispendio inutile di risorse pubbliche causato dall'azione infondata.
Con la sentenza n. 30202/2025, la Corte ha esaminato un ricorso proposto dall'amministratore e socio unico di una società successivamente dichiarata fallita. L'Agenzia delle entrate aveva emesso un avviso di accertamento per operazioni legate a una frode carosello e il ricorrente aveva impugnato gli atti tributari e le relative misure cautelari.
Dopo il fallimento però, la legittimazione processuale per la tutela del patrimonio sociale spetta esclusivamente al curatore, salvo un'inerzia qualificata di quest'ultimo, che nel caso concreto non risultava. L'amministratore, quindi, non poteva più agire in giudizio per conto della società.
Nonostante la carenza di legittimazione fosse già stata rilevata in sede di merito, il ricorrente ha presentato comunque ricorso per cassazione. La Corte, applicando l'articolo 382, comma 3, del Codice di procedura civile, ha dichiarato che il giudizio non poteva essere proposto, ritenendo il soggetto "doppiamente in torto": aveva promosso un processo privo di presupposti già a partire dal grado precedente e aveva reiterato l'errore davanti alla Suprema Corte.
Richiamando l'articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, la Cassazione ha stabilito che il ricorrente deve versare il contributo unificato in misura raddoppiata. Si tratta di una forma di responsabilizzazione economica destinata a compensare l'attività giudiziaria inutilmente attivata.

