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Notizie Giuridiche

» Dimissioni per fatti concludenti: un equilibrio ancora da costruire
16/11/2025 - Aldo Andrea Presutto

La legge che trasforma il comportamento in parola

Quando una norma entra nel nostro ordinamento con passo silenzioso ma effetti potenzialmente dirompenti, è sempre interessante seguirne l'evoluzione: prima sul piano teorico, poi nella prassi amministrativa, infine nell'esperienza dei tribunali. La disciplina delle dimissioni per fatti concludenti, introdotta dalla Legge n. 203/2024, appartiene esattamente a questa categoria. Una norma breve, dieci righe appena, ma capace di modificare radicalmente il modo in cui consideriamo la volontà di recesso del lavoratore, spostandola dal piano dichiarativo a quello presuntivo, trasformando comportamenti concreti in atti giuridici significativi.

Il nuovo comma 7-bis dell'articolo 26 del D.Lgs. 151/2015 parte da un dato ormai noto agli operatori: l'assenza ingiustificata non è sempre soltanto un inadempimento disciplinare. In molti casi, può rappresentare un segnale inequivocabile di abbandono del posto di lavoro, una forma tacita di volontà dimissionaria. Da qui la scelta normativa di qualificare come cessazione volontaria del rapporto l'assenza protratta oltre un limite predefinito, stabilito innanzitutto dai contratti collettivi e, solo in via residuale, dal parametro legale dei quindici giorni.

La norma si muove lungo una linea sottile: da un lato mira a contrastare condotte elusive, spesso finalizzate a provocare il licenziamento disciplinare per accedere alla NASpI; dall'altro lato deve evitare di trasformare un comportamento scorretto del lavoratore in una sorta di espulsione automatica priva delle garanzie e delle cautele tipiche del diritto del lavoro. Per questo lo stesso comma riconosce al lavoratore la possibilità di dimostrare l'impossibilità di comunicare le ragioni dell'assenza per forza maggiore o per fatto imputabile al datore, introducendo uno spazio minimo di valutazione individuale, anche all'interno di una presunzione legale.

L'ingresso della norma nella prassi amministrativa

Gennaio 2025: la legge entra in vigore e subito solleva interrogativi, più sottili di quanto il testo possa far supporre. La norma, semplice nelle parole, si rivela complessa negli effetti, perché tocca il cuore stesso della volontà del lavoratore, un terreno tradizionalmente circondato da formalità rigorose e procedure telematiche obbligatorie.

Il Ministero del Lavoro interviene rapidamente con una circolare chiarificatrice. Un dettaglio, apparentemente banale, diventa subito cruciale: i quindici giorni di legge vanno calcolati come giorni di calendario, includendo festivi, domeniche e chiusure aziendali. È una precisazione che trasforma il modo in cui si guarda all'assenza: nei rapporti part-time verticali, dove la prestazione può concentrarsi su uno o due giorni al mese, quindici giorni di calendario possono coincidere con una sola giornata di effettiva mancata prestazione, creando una discrepanza evidente tra comportamento e effetti giuridici.

La nota ministeriale n. 2504/2025 affronta poi il nodo delicato del rapporto tra norma legale e contrattazione collettiva. Il principio è chiaro e deciso: il limite dei quindici giorni non è la regola, ma la soluzione residuale. Se il CCNL applicato prevede termini più brevi — tre, cinque o sette giorni — sarà quello a prevalere. Tuttavia, l'amministrazione lancia un monito: soglie eccessivamente brevi non possono trasformarsi in strumenti di espulsione impropria. La contrattazione collettiva resta quindi la bussola principale, ma non può aggirare le garanzie fondamentali della legge.

Infine, la nota ministeriale chiarisce due aspetti operativi di grande rilevanza. Primo: l'Ispettorato del Lavoro ha il potere di accertare l'insussistenza delle condizioni necessarie a far scattare la presunzione e, se del caso, ripristinare il rapporto. Secondo: le dimissioni telematiche del lavoratore, anche se presentate tardivamente durante l'assenza, prevalgono sulla procedura avviata dal datore. In altri termini, quando esiste una manifestazione volontaria effettiva, la presunzione non può sostituirsi alla volontà reale. È un equilibrio delicato: il comportamento parla, ma non annulla la libertà di parola.

Natura e ratio delle dimissioni per fatti concludenti

L'istituto delle dimissioni per fatti concludenti nasce dall'esigenza di dare ordine a un fenomeno antico e complesso, che da tempo alimentava dubbi interpretativi e contenziosi frequenti: l'assenza ingiustificata protratta. Spesso, quell'assenza non era solo un segnale di inadempimento, ma poteva essere equivocata, strumentalizzata, con effetti profondi sulla cessazione del rapporto di lavoro. La norma interviene allora come un farò di chiarezza, trasformando un comportamento silenzioso in un messaggio giuridico interpretabile.

La natura della disciplina è duplice: presuntiva e integrativa. Presuntiva perché riconosce che la volontà del lavoratore può emergere dai suoi comportamenti concreti, dagli spazi vuoti delle assenze, dai silenzi prolungati. Integrativa perché interviene proprio dove la legge o il contratto collettivo non prevedono forme esplicite di recesso, colmando vuoti normativi senza sostituirsi alla volontà effettiva. Non si tratta di un mero automatismo disciplinare né di un espediente per aggirare le garanzie del lavoratore: la presunzione resta relativa, suscettibile di essere confutata mediante prova di impossibilità di comunicazione o di fatto imputabile al datore.

La ratio della disciplina è altrettanto chiara e profonda. Da un lato, mira a tutelare le imprese, evitando che assenze prolungate e ingiustificate paralizzino l'organizzazione, generando contenziosi lunghi e complessi. Dall'altro lato, vuole dare certezza giuridica e protezione al lavoratore, impedendo che la presunzione diventi strumento di espulsione arbitraria. La legge costruisce così un equilibrio delicato: efficienza organizzativa da un lato, libertà contrattuale dall'altro, con il comportamento concreto come metro per valutare la volontà, ma con salvaguardie che impediscono ingiustizie.

In altre parole, le dimissioni per fatti concludenti non trasformano ogni assenza in dimissione, ma creano un meccanismo chiaro, prevedibile e misurabile. Superato il termine fissato dal CCNL o dalla legge, l'assenza cessa di essere semplice fatto e diventa indicatore di volontà. Questo consente al sistema di distinguere tra ritardi e assenze occasionali e veri e propri abbandoni del posto di lavoro. È una norma che trasforma il silenzio in parola, il gesto quotidiano in segnale giuridico, rendendo l'esperienza concreta delle assenze uno strumento di certezza e tutela reciproca, sia per l'impresa sia per il lavoratore.

Le criticità applicative: part-time verticali e scenari borderline

Non tutte le assenze sono uguali, e non tutti i contratti si muovono lungo percorsi regolari. Nei rapporti part-time verticali, ad esempio, quindici giorni di calendario possono tradursi in una o due giornate effettive di lavoro, facendo apparire sproporzionata la presunzione di dimissioni per fatti concludenti. È come giudicare un romanzo intero leggendo soltanto un capitolo: il tempo del calendario non sempre coincide con la rilevanza concreta del comportamento del lavoratore.

Ma le sfide non finiscono qui. Ci sono assenze legate a malattie brevi, non certificate, o a difficoltà impreviste di comunicazione. Ci sono giornate in cui l'assenza non riflette abbandono, ma ostacoli oggettivi e circostanze di forza maggiore. In queste zone grigie, la norma mette alla prova il delicato equilibrio tra la necessità dell'impresa di avere certezza organizzativa e il diritto del lavoratore a non vedere la propria libertà compressa da presunzioni eccessive.

Saranno i tribunali, caso per caso, a delineare i confini di questa disciplina. Ogni decisione contribuirà a trasformare l'astrazione della legge in strumenti concreti e prevedibili, offrendo alle imprese e ai consulenti del lavoro una bussola per orientarsi tra comportamenti ambigui e situazioni straordinarie. In altre parole, la norma non è un martello automatico: è un equilibrio fragile che va calibrato con attenzione, giudizio e buon senso.

La giurisprudenza inizierà a distinguere tra assenze chiaramente volontarie e comportamenti ambigui, come assenze intermittenti, malattie brevi non certificate o comunicazioni tardive. Possibili scenari futuri includono contestazioni multiple, accumulo di assenze brevi o CCNL innovativi che fissano soglie diverse. La prova di forza maggiore o di fatti imputabili al datore potrebbe diventare l'elemento cruciale per contrastare la presunzione.

I tribunali, caso per caso, dovranno bilanciare certezza organizzativa e tutela della volontà individuale, delineando confini più chiari e fornendo orientamenti pratici per imprese e consulenti.

Prima giurisprudenza: Trib. Milano, sentenza n. 4953/2025 – un caso paradigmatico

Il Tribunale di Milano ha avuto il merito di offrire il primo banco di prova concreto alla disciplina delle dimissioni per fatti concludenti. Il caso, apparentemente semplice nella dinamica, nascondeva complessità sottili e delicate sfumature interpretative. Una giovane educatrice di una cooperativa sociale era rimasta assente senza giustificazione per un periodo che superava i tre giorni previsti dal CCNL di riferimento. L'azienda, interpretando la nuova norma, aveva considerato scattata la presunzione di dimissioni per fatti concludenti e, per eccesso di prudenza, aveva avviato anche la procedura di licenziamento disciplinare.

Il giudice milanese si trovava davanti a un bivio: doveva decidere se considerare il comportamento della lavoratrice come dimissioni effettive, anche senza dichiarazione formale, oppure respingere l'interpretazione del datore come eccessivamente rigida e potenzialmente lesiva della tutela del lavoratore.

La motivazione della sentenza è chiara e lineare, ma al contempo incisiva: il superamento del termine fissato dal CCNL — in questo caso tre giorni — è sufficiente a far scattare la presunzione legale di dimissioni. Non servono ulteriori avvisi, comunicazioni o licenziamenti disciplinari: la legge parla attraverso il comportamento, e il comportamento, in questo caso, ha detto ciò che la lavoratrice non ha espresso con parole. Il Tribunale sottolinea con precisione che il licenziamento successivo è giuridicamente irrilevante, perché la cessazione del rapporto si è già realizzata ex lege.

Quello che emerge dalla lettura della sentenza non è solo un applicazione meccanica della norma, ma un vero e proprio manifesto interpretativo: la presunzione è autonoma, robusta, e va rispettata. Allo stesso tempo, la sentenza non ignora la dimensione individuale: riconosce implicitamente che la presunzione può essere contrastata solo attraverso prove concrete di forza maggiore o di fatto imputabile al datore, confermando che la tutela del lavoratore rimane un pilastro fondamentale.

Dal punto di vista operativo, il giudice milanese offre indicazioni preziose. In primo luogo, conferma che il CCNL ha un ruolo determinante nella determinazione dei termini: la legge offre un limite residuale di quindici giorni, ma i contratti collettivi possono fissare soglie più stringenti, e queste prevalgono. In secondo luogo, la sentenza chiarisce che l'eventuale licenziamento successivo non aggiunge nulla: la correttezza della procedura disciplinare diventa irrilevante se la presunzione si è già attivata. Infine, si delinea un principio più generale, che sarà destinato a orientare casi futuri: la volontà presunta, se oggettivamente desumibile, ha forza autonoma e rilevanza immediata.

La lettura della sentenza rivela anche il peso simbolico della norma: il comportamento quotidiano, apparentemente banale o superficiale, assume valore giuridico pieno. L'assenza di un giorno diventa una parola non detta, un messaggio interpretato dal diritto. In questo senso, il Tribunale di Milano non si limita a applicare la norma: ne racconta la logica, ne traduce i principi in strumenti pratici e concreti, e disegna il confine tra libertà del lavoratore e esigenze organizzative.

In altre parole, la sentenza non è solo una decisione: è un modello interpretativo, un faro per operatori, consulenti del lavoro e imprese. Mostra come la presunzione delle dimissioni per fatti concludenti possa funzionare in modo coerente e prevedibile, senza cedere all'arbitrarietà, e al tempo stesso come la tutela individuale rimanga viva, pronta a intervenire quando il comportamento non esprime veramente la volontà di recedere.

Considerazioni conclusive: impatti, strategie e prospettive future

Le dimissioni per fatti concludenti non sono una norma da applicare come un automatismo, né uno strumento da usare a discrezione illimitata. Sono piuttosto un bilanciere delicato, sospeso tra le esigenze organizzative dell'impresa e i diritti fondamentali del lavoratore, un meccanismo che misura la volontà non espressa ma percepita attraverso i comportamenti concreti. Per i datori di lavoro, il primo passo è una ricognizione accurata del CCNL applicato e delle soglie previste. Non basta rispettare formalmente la legge: occorre leggere i termini contrattuali, interpretarne il senso e calibrare con attenzione ogni comunicazione all'Ispettorato del Lavoro, perché la norma richiede giudizio, consapevolezza e strategia. Un errore, una comunicazione tardiva o una soglia applicata senza logica, può trasformare una presunzione legittima in un contenzioso complesso e oneroso.

Per i lavoratori, il messaggio è altrettanto chiaro e urgente: un'assenza prolungata non è più uno spazio neutro in cui coltivare ambiguità o sperimentare strategie personali. Può avere effetti immediati, concreti e difficilmente reversibili, trasformando giorni di silenzio in atti giuridici di cessazione del rapporto. L'unico strumento concreto per bilanciare la presunzione resta la prova di forza maggiore o di fatti imputabili al datore: ostacoli sopravvenuti, impedimenti oggettivi o circostanze straordinarie che dimostrino che l'assenza non corrispondeva a volontà di dimettersi. È una tutela fragile ma reale, l'ultimo argine in un sistema che valorizza il comportamento concreto.

La giurisprudenza, pur muovendo i primi passi, sembra già disegnare un percorso chiaro. Il Tribunale di Milano ha dimostrato come la presunzione legale possa avere forza autonoma, intervenendo con immediatezza quando il superamento del termine è incontestabile. Tuttavia, i casi più complessi sono ancora davanti a noi: rapporti part-time atipici, assenze borderline, comunicazioni tardive, contestazioni tra lavoratore e datore sulle cause reali dell'assenza, accertamenti ispettivi che non coincidono. In questi scenari, la norma verrà messa realmente alla prova, e sarà necessario un equilibrio tra certezza organizzativa e tutela della volontà individuale, un esercizio delicato di interpretazione, prudenza e buon senso.

Dal punto di vista operativo, questa legge cambia più abitudini che regole formali. Cambia il modo in cui i responsabili HR leggono i registri delle presenze, il modo in cui i consulenti del lavoro valutano le assenze, il modo in cui le imprese comunicano con i propri dipendenti e con l'Ispettorato. Cambia la prospettiva stessa sul concetto di volontà: non più solo dichiarata, ma desumibile dai fatti, dalle tracce quotidiane del lavoro, dai comportamenti silenziosi che parlano più delle parole.

Per le imprese, la sfida è dunque educativa oltre che operativa: comprendere che la norma non è una scorciatoia per "espellere" chi non è produttivo, ma uno strumento per dare ordine e prevedibilità al rapporto di lavoro. Per i lavoratori, la sfida è di consapevolezza: comprendere che ogni azione, anche l'assenza silenziosa, può avere conseguenze legali precise, e che esiste solo uno spazio limitato per contestare la presunzione con motivazioni concrete.

In definitiva, le dimissioni per fatti concludenti ci ricordano una lezione profonda: il diritto del lavoro moderno non tutela solo le parole, ma anche i silenzi, i gesti e i comportamenti concreti. Ogni giorno di assenza, ogni ritardo nella comunicazione, ogni silenzio può diventare un messaggio giuridico. Osservarli attentamente, interpretarli correttamente e trasformarli in decisioni consapevoli sarà la vera sfida per aziende, consulenti e lavoratori. Una norma che insegna, in fondo, che spesso il silenzio e l'azione parlano più di mille dichiarazioni, e che il diritto del lavoro non è fatto solo di regole astratte, ma di vita quotidiana, di comportamenti reali e di equilibrio tra persone e organizzazioni.

[Fonte: www.studiocataldi.it]

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