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» Legge di bilancio 2026 e art. 129: profili di incostituzionalità
09/11/2025 - Svetlana Bounegru


Nel presente contributo si propone un'analisi tecnica dei profili di costituzionalità e legalità dei commi 8 e 9 dell'articolo 129 della bozza di legge di bilancio 2026, con particolare riferimento alle disposizioni in materia di controlli sulla fruizione dei permessi e congedi ex legge 104/1992.

Pur entrando nel merito dei contenuti normativi, è opportuno premettere che entrambe le disposizioni, e in particolare il comma 8, sollevano rilevanti dubbi di pertinenza rispetto alla natura e alla funzione della legge di bilancio, ai sensi dell'articolo 81 della Costituzione e della legge n. 196 del 2009 (Legge di contabilità e finanza pubblica).

La legge di bilancio, per sua natura, è uno strumento di programmazione economico-finanziaria che deve contenere misure strettamente funzionali alla determinazione delle entrate e delle spese dello Stato. La giurisprudenza costituzionale ha più volte chiarito che l'inserimento di norme ordinamentali è ammissibile solo se esse producono effetti diretti o indiretti sulla finanza pubblica, e non quando si limitano a introdurre modifiche strutturali di carattere amministrativo, sociale o giuridico prive di impatto economico immediato e quantificabile. Come affermato dalla Corte costituzionale nella storica sentenza n. 1 del 1966, il precetto dell'art. 81, comma 4, Cost. 'attiene ad ogni altra legge che non sia la legge di bilancio' e riguarda i 'limiti sostanziali che il legislatore ordinario è tenuto ad osservare nella sua politica di spesa' (Corte costituzionale sentenza n. 1 del 10 gennaio 1966). La compatibilità sarebbe ammissibile solo ove sia puntualmente quantificato e qualificato l'impatto sui saldi, oppure ove sussista un collegamento funzionale effettivo e non meramente dichiarativo, ad esempio, una riduzione di spesa per abusi espressamente quantificata. Diversamente, una simile impostazione rafforza la critica al carattere meramente strumentale della collocazione.

In questo quadro, il comma 8 attribuisce al datore di lavoro il potere di attivare accertamenti sanitari sulla persona assistita e introduce una norma di sistema che incide su diritti fondamentali e sui rapporti tra privati e poteri pubblici, senza alcuna stima di impatto economico. La sua collocazione nella legge di bilancio appare forzata e strumentale, e rischia di esporre l'intero provvedimento a rilievi di eccesso di materia. Mentre il comma 9 impone alle pubbliche amministrazioni un obbligo informativo aggiuntivo formalmente più compatibile con la legge di bilancio, ma il suo impatto sulla spesa è marginale e non dimostrato. Anche in questo caso, l'inserimento appare più funzionale a consolidare un impianto normativo che a incidere realmente sulla programmazione finanziaria.

Alla luce di queste considerazioni, l'analisi che segue si concentrerà sui profili di costituzionalità e legalità dei due commi, ma tenendo fermo il giudizio preliminare di scarsa pertinenza e opportunità del loro inserimento in una legge di bilancio, che dovrebbe restare uno strumento tecnico e non un veicolo di riforme strutturali in materia di diritti sociali e poteri pubblici.

Il comma 8 dell'art. 129 della bozza della Legge di Bilancio 2026 dispone che "l'INPS accerta, su richiesta del datore di lavoro, la permanenza dei requisiti sanitari per i quali sono riconosciuti i permessi di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 104". La norma autorizza l'INPS a servirsi di risorse esterne e di medici della sanità militare e rinvia a decreto ministeriale le modalità operative.

Rilievi di incostituzionalità dei due commi

Sotto il profilo strutturale l'iniziativa del datore presuppone un nucleo di illegittimità. La norma mette nelle mani del datore di lavoro il potere di innescare controlli sanitari su una persona disabile assistita dal dipendente pubblico. Questo non è un difetto procedurale secondario ma è la causa efficiente del vulnus. Attribuire a una parte datoriale (anche pubblica) la facoltà di sollecitare accertamenti che colpiscono la sfera intima e sanitaria di un terzo crea un conflitto d'interessi insanabile, produce discriminazione differenziata tra disabili a seconda del datore del caregiver e instaura una forma di sorveglianza privata sulla salute di soggetti vulnerabili. L'effetto pratico della norma sarebbe immediato, il disabile diventa oggetto di controllo non per motivi pubblici neutri ma in ragione di rapporti di lavoro altrui. L'attivazione della verifica su richiesta del datore di lavoro, se non sorretta da elementi oggettivi e verificabili integra un uso distorto dello strumento configurando sviamento di potere e contraddicendo i principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.), con chilling effect sulla fruizione dei diritti sociali (artt. 2, 3, 32, 38 Cost.) e nei casi limite, avvicinabile a un uso ritorsivo, specie quando funzionalmente diretta a intimidire la lecita fruizione dei permessi.

La recente sentenza della Cassazione civile n. 30628 del 28 novembre 2024 consolida definitivamente i principi che rendono costituzionalmente insostenibile l'art. 129, comma 8. La Suprema Corte ha infatti stabilito che "grava sull'INPS o sul datore di lavoro l'onere di provare la sopravvenuta carenza dei requisiti per fruire del beneficio, una volta che il relativo diritto sia stato riconosciuto al lavoratore dall'ente previdenziale" e che il diritto ai permessi "si configura come obbligazione di durata che permane sino all'accertamento di eventuale sopravvenuta modifica delle predette condizioni". Questo principio giurisprudenziale consolidato evidenzia l'anomalia costituzionale del comma 8 sotto un duplice profilo. In primo luogo, se già oggi il datore di lavoro ha l'onere di provare la carenza sopravvenuta dei requisiti attraverso gli ordinari strumenti probatori, l'attribuzione del potere di attivare controlli sanitari su impulso datoriale non aggiunge alcuna tutela necessaria ma introduce solo un meccanismo discriminatorio e potenzialmente ritorsivo. In secondo luogo, la qualificazione del diritto come "obbligazione di durata" rende ancora più evidente il chilling effect della norma: se il diritto si presume permanente fino a prova contraria, la mera possibilità che il datore possa attivare controlli sanitari discrezionali crea un effetto deterrente permanente sulla fruizione del beneficio, trasformando un diritto costituzionalmente garantito in una concessione revocabile a discrezione del soggetto interessato. La sentenza dimostra inoltre che "l'ente previdenziale non aveva il potere di circoscrivere, ex ante, nel tempo la prestazione previdenziale" e che la decadenza può conseguire "esclusivamente all'accertamento di fatti sopravvenuti". Se nemmeno l'INPS può limitare ex ante il diritto, a maggior ragione risulta costituzionalmente illegittima l'attribuzione al datore di lavoro del potere di rimettere in discussione un diritto già accertato attraverso controlli sollecitati su base meramente discrezionale, senza la specificazione di presupposti oggettivi e verificabili che ne giustifichino l'attivazione.

Sotto il profilo del giudicato e della separazione dei poteri la disposizione, consentendo all'INPS di attivare verifiche su impulso del datore di lavoro, rischia di rimettere in discussione situazioni già accertate e consolidate in sede giudiziale, incidendo sulla certezza del giudicato e sul principio di separazione dei poteri. Né l'amministrazione, né il datore di lavoro possono disapplicare un giudicato: eventuali dubbi sulla veridicità di atti o certificazioni che ne hanno costituito presupposto si fanno valere con i rimedi giurisdizionali tipici (ad es., incidentale/querela di falso; revocazione per documento riconosciuto o dichiarato falso), non mediante nuovo riesame amministrativo dei medesimi presupposti. Sul piano normativo, la legge n. 241/1990, art. 21-septies prevede la nullità dei provvedimenti adottati in violazione o in elusione del giudicato; mentre l'art. 2909 c.c. stabilisce l'efficacia vincolante dell'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato tra le parti (e dunque anche nei confronti della P.A. quando sia stata parte del processo). In giurisprudenza, è costante l'affermazione che il giudicato preclude la rimessione in discussione delle questioni decise e copre anche gli accertamenti presupposti necessari, con conseguente dovere dell'amministrazione di conformarsi nella fase esecutiva (Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2007, n. 2251). Ne discende che la verifica della "permanenza dei requisiti" è ammissibile solo nei limiti tracciati dalla sentenza e in presenza di autentiche sopravvenienze (cioè, fatti nuovi, successivi al giudicato), non potendo l'amministrazione auto-anticipare o svuotare la scansione temporale o i vincoli fissati dal decisum con accertamenti sanitari imposti su impulso datoriale. Precisazione sulle "sopravvenienze". Per fatto sopravvenuto legalmente accertato si intende un evento (i) successivo al perimetro temporale coperto dal giudicato, (ii) giuridicamente rilevante rispetto al diritto riconosciuto e (iii) provato con titoli/atti pubblici o con un accertamento dell'autorità competente. Anche in presenza di vere sopravvenienze l'Amministrazione non può avviare verifiche esplorative/anticipatorie su impulso del datore quando ciò contraddice tempi e limiti del decisum: simili atti integrano elusione del giudicato (nullità ex art. 21-septies l. 241/1990; declaratoria in ottemperanza ex art. 114 c.p.a.) e restano preclusi dal principio di res iudicata (Cons. Stato, IV, 10 maggio 2007, n. 2251). Le sopravvenienze si fanno valere nei soli canali processuali e l'onere della prova grava su chi le deduce; il diritto, quale obbligazione di durata, perdura sino a prova contraria legale (Cass., Sez. lav., 28 novembre 2024, n. 30628). Diversamente, l'atto successivo integra elusione del giudicato ed è, per ciò solo, nullo ai sensi dell'art. 21-septies l. 241/1990. In pendenza e nei limiti del giudicato, ogni verifica sollecitata o svolta che si traduca in una sostanziale rimessione in discussione del decisum integra una elusione del giudicato e determina la nullità dell'atto ai sensi dell'art. 21-septies L. 241/1990. La necessità di evitare controlli "esplorativi" o prassi che, in concreto, neutralizzino il diritto già riconosciuto dal giudice trova fondamento anche nella giurisprudenza costituzionale: i limiti amministrativi devono restare compatibili con la funzione del diritto e non tradursi nella esclusione dell'effettiva possibilità di esercizio (Corte cost., n. 203/1985).

Il problema non è un dettaglio tecnico ma la titolarità stessa dell'iniziativa. Finché il potere di chiedere l'accertamento resterà attribuito al datore, permangono tutte le patologie costitutive come il conflitto d'interessi, la discriminazione strutturale e l'effetto deterrente sui rapporti di cura. I correttivi procedurali possono ridurre danni pratici ma non eliminano la causa primaria dell'illegittimità, l'esistenza di una facoltà datoriale di attivare la macchina pubblica di controllo sulla salute altrui.

Anche se si imponessero soglie probatorie altissime o filtri formali, la mera possibilità che il datore possa ordinare un controllo pesa nella realtà sociale, disincentiva l'assistenza, stigmatizza la condizione di disabilità e rende il diritto alla cura subordinato alla discrezionalità del terzo.

Giuridicamente, la Corte costituzionale e i giudici chiamati a valutare casi concreti non guardano solo a procedure formali ma alla funzione e agli effetti della norma, una regola che legittima l'innesco privato di verifiche sulla salute di terzi è destinata a incontrare a parere della scrivente resistenze insuperabili.

L'effetto politico e la strategia della maggioranza che intende mantenerla

Una maggioranza che intende preservare la facoltà del datore ha una motivazione politica chiara, mostrare alla propria base un impegno contro presunti abusi e frodi, dando al contempo uno strumento simbolico di controllo. Anche se la norma è vulnerabile, la sua approvazione produce un vantaggio comunicativo.

Il percorso strategico prevedibile è approvare la norma, comunicarla come misura di rigore e responsabilità, affrontare l'impugnazione giudiziaria e poi strumentalizzare la pronuncia di incostituzionalità come prova di un "bavaglio" o di una resistenza della magistratura ai loro intenti.

Questo meccanismo produrrebbe un doppio effetto, sul piano pratico la norma può rimanere inefficace o bloccata da contenziosi; sul piano politico però funziona come strumento di mobilitazione dell'elettorato e di delegittimazione del ruolo giudiziario agli occhi di vaste platee.

C'è un ulteriore e subdolo rischio sistemico, quello normalizzare che attori privati possano sollecitare verifiche amministrative sulla salute altrui e questo fatto apre un precedente istituzionale per delegare funzioni pubbliche a interessi privati, con effetti regressivi sulla tutela dei diritti fondamentali.

Quali conseguenze

Si prevede una rapida ondata di ricorsi cautelari e di casi-pilota volti a sospenderne l'applicazione e forte probabilità di pronunce di illegittimità su profili centrali ma anche un effetto intimidatorio e disincentivo reale all'assistenza familiare, famiglie e caregiver potrebbero scegliere di non prestare assistenza per evitare controlli e possibili conseguenze.

Sicuramente si assisterebbe ad una amplificazione politica del conflitto tra legislatore e magistratura, con impatto sul dibattito pubblico e sulla fiducia nelle istituzioni ed aumento della stigmatizzazione delle persone con disabilità e peggioramento della qualità della tutela sociale.

L'art.129 comma 8

La norma così formulata presenta un difetto di costituzionalità strutturale, non è una questione di forma ma di funzione legislativa. L'unico intervento che potrebbe renderla compatibile con i principi costituzionali è cancellare la titolarità dell'iniziativa dal datore e riservarla a un'autorità pubblica autonoma (senza stravolgimenti dell'attuale impianto normativo, INPS su propria iniziativa e solo su criteri oggettivi e a campione), con esplicita esclusione del riesame del giudicato e con robuste garanzie sulla protezione dei dati sanitari. Se l'obiettivo politico è invece mantenere quell'iniziativa datoriale, la norma resterà, nella pratica, un atto simbolico destinato a scontrarsi con la giustizia costituzionale e a essere usato strumentalmente nel dibattito politico.

Art. 129 comma 9

A differenza del comma 8, il comma 9 non introduce poteri di accertamento né iniziative discrezionali da parte del datore di lavoro. Si limita a imporre alle pubbliche amministrazioni l'obbligo di trasmettere, nelle denunce mensili (UNIEMENS), le informazioni relative alla fruizione dei permessi e congedi previsti dalla legge 104/1992, dal decreto legislativo 151/2001 e dalla legge 81/2017. In particolare, si fa riferimento all'"evento fruito" e al "dante causa", cioè il soggetto per cui il beneficio è richiesto.

A parere della scrivente il solo obiettivo concreto che questa norma consente di perseguire è verificare che non vi siano più di tre giornate mensili di permesso 104 fruite da più lavoratori per lo stesso soggetto assistito. La legge prevede infatti un tetto massimo di tre giorni mensili complessivi per ciascun beneficiario. L'INPS, incrociando i dati delle autorizzazioni trasmessi dai datori, può rilevare eventuali sovrapposizioni e bloccare o contestare fruizioni eccedenti.

Tuttavia, questo controllo è già tecnicamente possibile, l'INPS associa ogni concessione di permessi a un codice autorizzativo che collega il lavoratore al soggetto assistito. Non è necessario che il datore di lavoro conosca o trasmetta dati personali del beneficiario, né che tratti informazioni sensibili come il nome, il codice fiscale o la condizione sanitaria. È sufficiente che trasmetta il codice autorizzativo ricevuto dall'INPS, che già contiene tutte le informazioni necessarie per gli eventuali successivi controlli.

Quali rischi

Se l'obbligo informativo previsto dal comma 9 venisse interpretato o attuato in modo estensivo, ad esempio imponendo al datore di lavoro di trasmettere dati identificativi del soggetto assistito, si potrebbero aprire profili di illegittimità sotto il GDPR e sotto la normativa nazionale sulla protezione dei dati personali. In primo luogo, il datore non è titolato a trattare dati sanitari o personali di soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro e la trasmissione di dati del "dante causa" deve essere strettamente necessaria, proporzionata e prevista da norma di legge chiara, altrimenti si configura un trattamento illecito. Il principio di minimizzazione dei dati impone che si trasmetta solo ciò che è indispensabile in questo caso, il codice autorizzativo è sufficiente. È vietata la trasmissione al datore di dati identificativi o sanitari del dante causa: ogni diversa attuazione integra trattamento illecito ed espone a sanzioni e contenzioso. Il solo codice autorizzativo è sufficiente e proporzionato (principio di necessità/minimizzazione).

I flussi informativi devono rispettare minimizzazione e necessità (art. 5(1)(c) e 6(1)(c) GDPR); l'eventuale trattamento di dati sanitari è ammissibile solo nei casi di cui all'art. 9(2)(b)/(g) GDPR, con le garanzie dell'art. 9(3) GDPR, e nei limiti dell'art. 2-sexies d.lgs. 196/2003 che pretende una base legale specifica su tipi di dati, operazioni, finalità e misure di tutela

L'ambito soggettivo dell'obbligo

Il comma 9 impone l'obbligo di trasmissione alle "pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165". Tuttavia, nella parte introduttiva si fa riferimento ai "lavoratori pubblici e privati", generando una possibile ambiguità interpretativa.

È essenziale che il legislatore chiarisca se l'obbligo riguarda esclusivamente le PA o se si intende estenderlo anche ai datori privati. In caso di estensione, andrebbero valutati con attenzione i profili di legittimità, proporzionalità e compatibilità con il GDPR.

Il comma 9, se correttamente attuato e limitato alla trasmissione del solo codice autorizzativo, non presenta profili di incostituzionalità e può contribuire a migliorare il controllo sulla fruizione dei permessi. Ma il suo beneficio pratico è unico e limitato: evitare che più lavoratori assistano contemporaneamente lo stesso soggetto oltre il limite previsto. Perché questo beneficio si realizzi senza danni collaterali, è essenziale che la comunicazione tra datore, fruitore e INPS sia tecnicamente precisa, giuridicamente legittima e rispettosa della privacy. Il soggetto assistito deve rimanere ignoto al datore, ogni altra interpretazione della norma rischia di trasformare un obbligo amministrativo neutro in un trattamento illecito di dati personali.

AS 1689 - Disegno di legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2026 e bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028

Art. 129

8. L'INPS accerta, su richiesta del datore di lavoro, la permanenza dei requisiti sanitari per i quali sono riconosciuti i permessi di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Per lo svolgimento di tali verifiche INPS può avvalersi, con specifiche convenzioni con oneri a carico delle singole amministrazioni, delle risorse umane e strumentali degli enti di cui all'articolo 19, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, e dei medici della sanità militare. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito l'INPS, sono stabilite le modalità di attuazione del presente comma.

9. Al fine di potenziare il sistema dei controlli sulla fruizione dei permessi di cui all'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, dei congedi straordinari di cui all'articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151, dei congedi parentali di cui agli articoli 32 e 33 del medesimo decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151, nonché di quelli di cui all'articolo 8, comma 4, della legge 22 maggio 2017, n. 81, spettanti ai lavoratori pubblici e privati, le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono tenute ad inserire le informazioni relative all'evento fruito e al relativo dante causa nelle denunce mensili di cui all'articolo 44, comma 9, del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326.


Dott.ssa Svetlana Bounegru - PHD in State Theory and Comparative Political Institutions. Ricercatrice presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Stato della Moldavia

[Fonte: www.studiocataldi.it]

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