
Nella stagione in cui la tecnologia è divenuta prolungamento della persona e lo smartphone custodisce la trama minuta delle nostre vite, il sequestro di un dispositivo digitale non è più un atto tecnico ma un evento giuridico di straordinaria intensità costituzionale.
L'analisi che segue si colloca in una prospettiva di diritto processuale penale costituzionalmente orientato, nella consapevolezza che la rivoluzione digitale ha costretto il sistema delle garanzie a misurarsi con nuove forme di vulnerabilità. L'oggetto non è soltanto l'atto di sequestro in sé, ma la ridefinizione della relazione tra potere investigativo e libertà personale nell'ecosistema tecnologico. L'approccio metodologico adottato si inscrive nella logica del "processo a diritti fondamentali", ove la garanzia individuale non è un limite esterno all'azione penale, ma la sua condizione di legittimità.
La trasformazione tecnologica impone di leggere l'atto di sequestro come luogo di bilanciamento tra sapere e potere: la prova non è più soltanto mezzo di accertamento, ma anche strumento di dominio informativo. Come ha evidenziato la dottrina più avvertita, la libertà contemporanea è anche "libertà dal dato", ossia diritto a mantenere il controllo sulla propria rappresentazione digitale nel circuito processuale.
L'intervento della Corte di cassazione penale, Sezione II, con la sentenza 13 ottobre 2025, n. 33657, si colloca all'interno di questo scenario e ribadisce con tono perentorio che l'autorità giudiziaria non può valicare la soglia dell'intimità individuale se non nei confini, rigorosi e predeterminati, del principio di legalità e di proporzionalità. Lo smartphone, osserva implicitamente la Corte, è il nostro specchio digitale: luogo della memoria, archivio delle emozioni, diario di relazioni e di fragilità. Il suo sequestro non può dunque essere trattato come la sottrazione di un mero oggetto materiale, ma come una misura che incide su un universo personale, un vero e proprio microcosmo costituzionalmente protetto.
L'art. 253 c.p.p. configura il sequestro probatorio come strumento funzionale all'accertamento dei fatti, circoscritto alla pertinenzialità delle cose al reato. Tuttavia, la rivoluzione digitale ha trasformato la nozione stessa di "cosa pertinente": il dato informatico non è oggetto, ma proiezione dell'identità personale.
La giurisprudenza più avvertita, coerente con l'impostazione delle Sezioni Unite (n. 40963/2017) e delle successive pronunce del 2022 e del 2025, ha progressivamente elaborato un modello garantista fondato sulla necessità di una motivazione rafforzata, che indichi con precisione il nesso di pertinenzialità, le informazioni di interesse, le parole chiave e la perimetrazione temporale. Come ha osservato la dottrina, la digitalizzazione della prova non attenua ma intensifica il rischio di compressione della sfera privata, imponendo al giudice un controllo di proporzionalità sostanziale.
In questa prospettiva, la Cassazione rifiuta ogni concezione puramente strumentale del sequestro e ne riafferma la natura di misura costituzionalmente limitata, la cui violazione genera nullità genetica ex art. 185 c.p.p. Tale orientamento si pone in linea con la giurisprudenza sovranazionale, che – a partire dal caso Digital Rights Ireland [1]e dalle pronunce Barbulescu c. Romania [2] e Big Brother Watch c. Regno Unito [3]– ha imposto che ogni acquisizione di dati personali avvenga nel rispetto del principio di stretta necessità e con una delimitazione rigorosa delle finalità investigative perseguite.
Nel caso oggetto di giudizio, il pubblico ministero aveva disposto il sequestro di alcuni telefoni cellulari, ritenendo necessario acquisire eventuali comunicazioni fra la persona offesa e alcuni colleghi in un contesto di presunte minacce sul luogo di lavoro. Il decreto, tuttavia, si limitava a individuare genericamente i dispositivi, senza chiarire il rapporto di pertinenzialità con l'ipotesi criminosa, né indicare criteri di selezione dei dati, chiavi di ricerca o limiti temporali.
Il Tribunale del riesame, investito dell'impugnazione, aveva annullato il provvedimento ritenendolo esplorativo e sproporzionato, in quanto esteso alla totalità dei dati informatici senza un razionale bilanciamento fra utilità investigativa e tutela della sfera privata. Nel ricorso per cassazione, il pubblico ministero aveva sostenuto che la specificazione dei dati potesse avvenire soltanto nella fase esecutiva, alla presenza delle parti e dei consulenti, mentre la polizia giudiziaria, nel momento del sequestro, avrebbe dovuto limitarsi all'apprensione materiale dei dispositivi.
La Suprema Corte, rigettando l'impugnazione, ha ribadito che la motivazione non è un adempimento eventuale, ma una condizione di esistenza giuridica dell'atto: il sequestro, privo di una chiara delimitazione oggettiva e temporale, si traduce inevitabilmente in un atto arbitrario, lesivo della libertà informativa e della dignità della persona.
Di particolare rilievo è l'affermazione della Corte secondo cui l'interesse all'annullamento del sequestro permane anche dopo la restituzione del dispositivo, poiché la persistenza della copia forense dei dati, nelle mani dell'autorità procedente, comporta la perdita dell'esclusiva disponibilità del proprio patrimonio informativo. Tale principio, già affermato dalle Sezioni Unite nel 2017 e ripreso dalle pronunce del 2022 e del 2024, viene ora consacrato in termini di diritto vivente: lo smartphone è un'estensione della persona, e la sua integrità informativa partecipa della sfera della libertà individuale.
La Corte, con linguaggio solo apparentemente tecnico, disvela in realtà una profonda tensione etica: l'indagine sul reato non può trasformarsi in indagine sull'uomo. La "dignità digitale" diviene così il prisma attraverso cui leggere la trasformazione del diritto penale contemporaneo: un diritto che, per rimanere umano, deve riconoscere che l'informazione coincide con la persona stessa. In questa prospettiva, la decisione costituisce un passo ulteriore verso una personalizzazione costituzionale dell'informatica giuridica.
4-bis. La "dignità digitale" come nuova categoria costituzionale
L'elaborazione giurisprudenziale della Corte consente di isolare una categoria autonoma: la dignità digitale, distinta dalla tradizionale privacy in quanto tutela il potere di ciascuno di governare il proprio patrimonio informativo. Essa rappresenta la proiezione contemporanea della libertà personale nell'ambiente tecnologico e si radica nel principio personalista di cui all'art. 2 Cost., integrato dall'autodeterminazione informativa dell'art. 8 della Carta di Nizza.
Come già intuiva Rodotà, la persona digitale non è un doppio, ma una continuazione dell'essere umano nella rete: violarla significa violare la persona stessa. La giurisprudenza europea impone che ogni ingerenza informatica sia valutata alla luce della proporzionalità e della finalità concreta perseguita. In tale orizzonte, la Cassazione non crea una nuova garanzia, ma restituisce umanità al dato: il potere di indagine non può mai trasfigurarsi in espropriazione della coscienza digitale dell'individuo.
La motivazione della Corte si muove in una dimensione che trascende il caso concreto e restituisce al diritto penale la sua funzione di limite e di misura. Il sequestro probatorio, osserva implicitamente la sentenza, non può degenerare in una pesca a strascico, in una ricerca illimitata che trasformi la giustizia in sorveglianza.
La Corte, con coerenza sistemica, traduce il principio di proporzionalità in parametro operativo dell'azione investigativa. Non si tratta più di un semplice criterio di bilanciamento, ma di una vera tecnica di legittimazione del potere probatorio, in linea con la tradizione tedesca[4] e con la giurisprudenza costituzionale italiana, che da tempo valorizza il nesso di necessità e adeguatezza quale presupposto di ogni limitazione della libertà.
La Corte non si limita a richiamare la proporzionalità in chiave difensiva, ma ne fa un criterio epistemologico del processo: il sapere giudiziario è legittimo solo se fondato su un metodo proporzionato. Si realizza così una torsione culturale del diritto probatorio, in cui l'atto d'indagine non è giustificato dal fine, ma dal modo in cui il fine viene perseguito. La proporzionalità, da formula di equilibrio, diventa architrave epistemica della giurisdizione nell'era digitale.
La "geometria della legalità digitale" disegnata dalla sentenza è dunque il frutto di una ricomposizione tra diritto alla prova e diritto alla libertà: due poli che si attraggono e si respingono, ma che trovano equilibrio solo nella misura motivata. Laddove questa misura manchi, non vi è processo, ma mera indagine amministrativa travestita da giurisdizione.
La sentenza n. 33657/2025 rappresenta molto più di una pronuncia di annullamento: costituisce un atto di difesa della costituzionalità del processo penale nell'era tecnologica. In un tempo in cui la dimensione digitale ha reso porosa la frontiera tra libertà e controllo, la Cassazione riafferma che la giustizia deve farsi misura e non dominio.
Il sequestro dello smartphone, lungi dall'essere routine investigativa, è misura eccezionale che esige un equilibrio perfetto tra esigenza conoscitiva e tutela della persona. La Corte, nel ribadire che la motivazione rafforzata non è adempimento formale ma garanzia sostanziale, ridisegna la grammatica del potere probatorio.
Sul piano sistemico, la decisione impone il ripensamento delle prassi di sequestro e duplicazione forense, richiedendo protocolli tecnici conformi ai principi di selettività, tracciabilità e non eccedenza. Solo in questo modo la digitalizzazione della prova potrà convivere con la tutela della libertà processuale e con la salvaguardia di quella dignità digitale che costituisce oggi il volto più moderno dei diritti inviolabili della persona.
La libertà digitale, dunque, non nasce dalla tecnica, ma dalla legge che la contiene. È in questa consapevolezza – austera e necessaria – che si compie la vera civiltà del processo penale costituzionale nell'età dell'informazione.
[1] CGUE, C-293/12, 8 aprile 2014
[2] CEDU, 5 settembre 2017
[3] CEDU, 25 maggio 2021
[4] Alexy R., Theorie der Grundrechte, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1985.

