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Ci sono decisioni della Corte costituzionale che non innovano il diritto, ma lo restituiscono alla sua misura. La sentenza n. 151 del 2025 appartiene a questa categoria: non apre una breccia, ma chiude un eccesso.
Dichiara l'illegittimità dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui vietava al giudice di ritenere prevalenti le attenuanti generiche sulla recidiva reiterata (art. 99, comma 4 c.p.) in caso di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.).
Una formula apparentemente tecnica, ma dietro cui si cela un principio semplice e antico: la pena deve essere misura e non automatismo.
Non è la prima volta che la Corte interviene sul punto. Da anni, attraverso una giurisprudenza paziente e progressiva, essa scava nel corpo della legislazione del 2005 – quella dei "blindati" sanzionatori – per restituire al giudice il potere di distinguere. Ma in questa occasione il terreno è particolarmente sensibile: il sequestro estorsivo, figura simbolo della risposta penale emergenziale, con una forbice sanzionatoria (da 25 a 30 anni) che supera persino l'omicidio.
Tutto nasce dal giudizio della Corte d'assise di Roma.
Due imputati, una vicenda di marginalità, violenza e droga. Una vittima tenuta legata per due giorni, minacciata per un riscatto di poche migliaia di euro. Non la grande criminalità organizzata, ma un episodio degradato e caotico, in cui la violenza si mescola alla disperazione.
Uno degli imputati, recidivo reiterato per reati di rapina, furto ed evasione, aveva tuttavia collaborato lealmente al processo, riconosciuto i fatti, e offerto – parole del giudice rimettente – un "utile contributo ricostruttivo".
Proprio questa condotta aveva indotto l'accusa e la difesa a chiedere il riconoscimento delle attenuanti generiche, come espressione di un percorso personale in atto, di una possibile evoluzione.
Ma l'art. 69, quarto comma, non lo consentiva: vietava al giudice di far prevalere le attenuanti sulla recidiva reiterata.
Il risultato era paradossale: una pena non inferiore a trent'anni di reclusione, superiore a quella dell'omicidio volontario.
Non un giudizio di colpevolezza, ma un automatismo di esclusione. È su questa sproporzione che si innesta la questione di costituzionalità.
Il cuore della pronuncia è la critica agli automatismi punitivi, che sopravvivono nel codice come eredità di una stagione di paura.
La Corte ricostruisce il percorso del diritto vivente: le proprie sentenze, da n. 251 del 2012 fino alle più recenti nn. 94, 117 e 141 del 2023-2025, che hanno progressivamente smantellato il divieto di prevalenza in relazione a varie attenuanti.
Un filo rosso le unisce: l'incompatibilità tra rigidità normativa e principio di proporzionalità, tra "pena cieca" e "pena giusta".
Il giudizio di bilanciamento tra circostanze – ricorda la Corte – non è un orpello tecnico, ma la sede in cui il giudice valuta "tutta la vicenda soggettiva e oggettiva dell'illecito".
Impedirgli di compierlo significa sottrarre al processo penale la sua funzione più propria: quella di misurare l'uomo nel suo fatto, e il fatto nella sua umanità.
E se la recidiva è segno di pericolosità, le attenuanti generiche sono lo spazio per riconoscere la possibilità di un cambiamento. Il diritto penale costituzionale non può rinunciare a questa dialettica.
La sentenza n. 151/2025 fonda il suo ragionamento su un dato matematico prima ancora che assiologico: la divaricazione sanzionatoria.
Nel minimo, il sequestro estorsivo vale venticinque anni; nel massimo, trenta.
La recidiva reiterata, combinata con la continuazione (art. 81, quarto comma c.p.), impone un aumento non inferiore a un terzo.
Così, anche partendo dal minimo, la pena arriva a sfiorare i trentatré anni, ridotti a trenta solo dal limite legale: una sanzione "superiore persino a quella prevista per l'omicidio", osserva la Corte d'assise rimettente.
Un simile risultato – dice la Consulta – non è compatibile con il principio di eguaglianza sostanziale (art. 3), né con la funzione rieducativa (art. 27, comma 3).
È la sproporzione stessa, in quanto negazione della misura, a costituire l'indice dell'incostituzionalità.
La Corte si muove con la consueta cautela: non disconosce la legittimità della recidiva, né il suo significato di maggiore rimproverabilità.
Ma precisa che essa non può "assorbire ogni altra valutazione".
Le attenuanti generiche – si legge – non sono concessioni di clemenza, bensì strumenti tecnici di personalizzazione della pena, attraverso cui il giudice può valorizzare anche "circostanze sopravvenute" alla commissione del reato: collaborazione, pentimento, condotta processuale, mutamento personale.
In una parola, la capacità di cambiare.
È qui che la Corte ritrova la propria voce più alta: quella per cui la pena, se vuole essere rieducativa, deve lasciare aperta la possibilità di una seconda valutazione della persona.
Una pena percepita come cieca non educa: genera avversione, rifiuto, ulteriore marginalità.
In questo senso, la pronuncia non parla solo al legislatore, ma al sistema penale nel suo complesso, ricordandogli che l'autorità della legge non si misura nella sua durezza, ma nella sua giustizia.
Nel punto più alto della motivazione, la Corte riprende un principio che Fiandaca e Mantovani hanno posto al centro della riflessione penalistica contemporanea: la pena come misura.
Non come calcolo quantitativo, ma come relazione proporzionale tra l'offesa e la risposta, tra l'autore e il suo fatto.
Il diritto penale non può essere solo prevenzione o retribuzione: deve essere anche ragione proporzionante.
E la proporzionalità, qui, non è un lusso teorico, ma il limite costituzionale del potere punitivo.
La sentenza n. 151/2025 riconduce così il sequestro estorsivo – reato simbolo dell'emergenza e della paura – al circuito ordinario della razionalità penale.
Non lo banalizza, ma lo restituisce al giudizio.
Rifiuta la logica del "diritto penale dell'automatismo", che sostituisce alla valutazione individuale la pura tipizzazione della colpevolezza.
La Corte non nega la gravità del reato: ricorda semplicemente che la severità, senza proporzione, diventa arbitrio.
Ciò che resta, oltre la norma dichiarata incostituzionale, è un messaggio più ampio.
Il diritto penale non può ridursi a strumento di semplificazione del male.
Nel tempo degli slogan securitari, la Corte costituzionale riafferma che la giustizia non è mai automatica: è sempre questione di misura, di ragione e di umanità.
Il sequestro estorsivo rimane un delitto grave, ma la risposta non può essere cieca.
La recidiva reiterata non può oscurare l'individualità del reo, né cancellare le attenuanti che la realtà restituisce.
Come scriveva Fiandaca, "l'eguaglianza delle pene è ingiustizia, quando non rispecchia la diseguaglianza dei fatti e delle persone".
E come insegna Mantovani, "la pena è giusta solo quando conserva memoria della persona".
La sentenza n. 151/2025 è, in fondo, un esercizio di memoria: memoria della proporzionalità, della personalità, e della funzione costituzionale della pena.
È il promemoria – discreto ma fermo – che la giustizia penale non si misura dalla quantità degli anni inflitti, ma dalla qualità del giudizio che li commisura.


