La Corte afferma che tali incarichi non costituiscono rapporti di lavoro subordinato a termine, ma funzioni pubbliche temporanee, regolate da una disciplina autonoma e non integrabile con le norme generali sui contratti a termine. La pronuncia valorizza il limite massimo di durata come presidio anti-abuso, in linea con la clausola 5 dell'Accordo quadro UE, e distingue nettamente tra rapporto di lavoro e incarico dirigenziale. In tal modo, la sentenza ricompone un quadro normativo frammentato, rafforza la funzione nomofilattica della Cassazione e orienta il legislatore verso una regolazione più coerente e trasparente della dirigenza pubblica esterna, in chiave di responsabilità, temporaneità e compatibilità eurounitaria.
La sentenza n. 27189 del 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si inserisce nel processo di chiarificazione interpretativa dell'art. 19, comma 6, del D.Lgs. 165/2001, disposizione che regola il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni alla pubblica amministrazione. L'intervento della Corte si distingue per la profondità dell'argomentazione e per la capacità di integrare principi costituzionali, giurisprudenza consolidata e compatibilità eurounitaria, in particolare con la clausola 5 dell'Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE.
In un ambito segnato da incertezze applicative, la Cassazione ricompone il quadro normativo e sistematico, riconducendo la disciplina degli incarichi esterni a un regime di specialità autosufficiente, in grado di bilanciare flessibilità organizzativa e garanzie di legalità, imparzialità e tutela del lavoro. Per la solidità argomentativa e per la funzione di indirizzo, la decisione si presenta come una tappa evolutiva nella costruzione di un modello coerente di dirigenza pubblica.
La Corte afferma che l'art. 19, comma 6, costituisce una disciplina speciale e autonoma, sottratta all'applicazione analogica delle regole sui contratti a termine previste dal D.Lgs. 368/2001 e dal D.Lgs. 81/2015. L'incarico conferito a soggetti esterni non rappresenta, infatti, una forma di lavoro subordinato, ma un rapporto pubblicistico finalizzato all'acquisizione temporanea di competenze altamente qualificate.
Tale ricostruzione, già delineata da Cass. nn. 17010/2017, 7440/2018 e 13066/2022, trova ora un definitivo consolidamento: la specialità dell'istituto giustifica la deroga alle regole generali su durata e causale, poiché l'obiettivo non è la copertura di posti vacanti, ma il perseguimento di risultati amministrativi specifici. Ne consegue che la legittimità dell'incarico si misura sulla coerenza tra la temporaneità del conferimento e la natura funzionale dell'apporto professionale richiesto, in conformità al principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.
In stretta continuità con tale impostazione, la Corte riafferma la distinzione strutturale tra rapporto di lavoro e incarico dirigenziale. Mentre il primo può essere stabile, in quanto derivante da concorso e inquadramento nei ruoli dell'amministrazione, l'incarico conserva una dimensione necessariamente temporanea e orientata agli obiettivi.
La temporaneità non esprime precarietà, bensì uno strumento di valutazione e rotazione, coerente con l'imparzialità amministrativa. L'incarico è fondato su un rapporto fiduciario qualificato, modulabile nel tempo secondo le esigenze organizzative. Come già chiarito da Cass. n. 2233/2007, la distinzione tra rapporto e incarico è il fondamento del moderno modello di dirigenza pubblica, basato su professionalità, responsabilità e risultati. La sentenza in commento, dunque, integra la precedente giurisprudenza e la rilancia in chiave sistemica, connettendo stabilità del rapporto e temporaneità della funzione come due facce della stessa architettura amministrativa.
La riflessione sulla natura temporanea dell'incarico trova ulteriore compimento nell'analisi del limite massimo di durata. La Corte lo qualifica come garanzia sostanziale contro l'abuso nella reiterazione degli incarichi e come strumento di conformità ai principi del diritto dell'Unione. Il termine massimo — tre anni per gli incarichi di direzione generale e cinque per gli altri — non è una mera misura organizzativa, ma un presidio di legalità e tutela.
Attraverso il rinvio alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (cause Pérez López e Samohano), la Cassazione riconosce che la temporaneità è elemento essenziale di protezione contro la precarizzazione. La durata, dunque, non limita la flessibilità, ma la regola, garantendo che l'amministrazione persegua obiettivi reali e non perpetui forme di lavoro "a termine mascherato". Si delinea così un equilibrio multilivello tra buon andamento interno e compatibilità eurounitaria.
L'analisi sistematica della Corte si rafforza mediante il confronto con altri regimi speciali di incarichi pubblici. L'art. 110 TUEL per gli enti locali e l'art. 15-septies del D.Lgs. 502/1992 per la sanità condividono la medesima logica di temporaneità qualificata e percentuale limitata.
Pur variando requisiti e durata, il filo conduttore resta l'eccezionalità dell'apporto esterno e la sua compatibilità con la struttura ordinaria dei ruoli. La Cassazione colloca l'art. 19, comma 6, all'interno di questa costellazione normativa, come modello paradigmatico di equilibrio tra esigenze funzionali e garanzie pubblicistiche. In tal modo, la pronuncia assume una valenza ricostruttiva dell'intero sistema della dirigenza a contratto, valorizzandone la coerenza assiologica.
Sul piano metodologico, la sentenza esprime pienamente la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione. L'interpretazione dell'art. 19, comma 6, viene elevata a principio di diritto idoneo a orientare la giurisprudenza di merito e la prassi amministrativa, superando letture frammentarie e localistiche.
La Corte non si limita a un'interpretazione verticale di uniformità, ma realizza una coerenza orizzontale tra diritto interno e diritto europeo, accogliendo i principi di prevenzione dell'abuso e tutela della stabilità professionale. Ne risulta un sistema armonico, in cui la nomofilachia diventa strumento di integrazione multilivello e di dialogo tra giurisdizioni.
Sotto il profilo teorico, la sentenza consente di rileggere l'incarico dirigenziale esterno come istituto autonomo, dotato di propria teleologia. Non si tratta di una deroga episodica, ma di una forma di funzione pubblica a tempo determinato, finalizzata alla realizzazione di obiettivi amministrativi specifici.
L'incarico è espressione di una relazione pubblicistica e fiduciaria, orientata alla responsabilità per risultati più che alla stabilità del vincolo. In tal senso, esso rappresenta un punto di equilibrio tra l'esigenza di flessibilità organizzativa e la tutela della professionalità, coerente con la trasformazione del diritto amministrativo verso una logica di performance e accountability.
Il modello italiano, così delineato, si avvicina ai sistemi europei di civil service flessibile. In Francia, la haute fonction publique opera su incarichi a termine rinnovabili e valutabili; in Germania, il Leitende Beamte è soggetto a mobilità; in Spagna, la Alta Dirección si fonda su rapporti fiduciari temporanei; nel Regno Unito, il Senior Civil Service lega la permanenza agli obiettivi di risultato.
La decisione della Cassazione si pone in linea con tali esperienze, adattandole al contesto costituzionale italiano: la temporaneità non è precarietà, ma strumento di responsabilizzazione. In questa prospettiva comparata, la clausola 5 della direttiva 1999/70/CE diventa non solo parametro di legalità, ma modello di amministrazione moderna e trasparente.
La chiarezza ermeneutica della sentenza apre scenari di riforma. La sistematizzazione dell'art. 19, comma 6, potrebbe tradursi in una codificazione unitaria degli incarichi esterni, con definizione chiara di requisiti, limiti, durata e criteri di rinnovo. Un intervento legislativo organico ridurrebbe le ambiguità applicative e rafforzerebbe la legittimazione del reclutamento esterno come leva di innovazione.
In tal modo, la giurisprudenza della Cassazione non si limita a interpretare, ma orienta il legislatore verso un diritto pubblico più coerente, capace di bilanciare autonomia organizzativa e tutele individuali, in linea con i principi di responsabilità e trasparenza.
La Corte riconosce che la reiterazione abusiva degli incarichi, priva di effettive esigenze temporanee, lede la dignità professionale del dirigente e integra una violazione del principio di non discriminazione. Il rimedio risarcitorio ex art. 36, comma 5, D.Lgs. 165/2001 ha funzione compensativa e deterrente, ma resta postumo.
Per una tutela più efficace occorrono strumenti preventivi: obbligo di motivazione rafforzata, pubblicità dei criteri di selezione e tracciabilità dei rinnovi. Tali meccanismi rafforzerebbero la legalità sostanziale e ridurrebbero il rischio di abusi strutturali, rendendo la flessibilità compatibile con la protezione del valore professionale del dirigente.
La sentenza n. 27189/2025 consente di delineare una teoria multilivello della dirigenza pubblica, fondata su tre assi: la specialità normativa dell'art. 19, comma 6; la temporaneità funzionale dell'incarico; e la compatibilità eurounitaria come parametro di legittimità.
La Corte non si limita a un chiarimento tecnico, ma offre una visione sistemica che ricompone il rapporto tra flessibilità amministrativa e tutela dei diritti. Ne emerge un paradigma di amministrazione responsabile, trasparente e orientata al risultato, coerente con i valori dello Stato costituzionale contemporaneo.
La pronuncia, per la profondità della motivazione e per la capacità di orientare dottrina e prassi, rappresenta non solo un punto d'arrivo, ma una base teorica per la futura riforma della dirigenza pubblica in chiave europea e costituzionale.