Con l'ordinanza n. 26923 del 7 ottobre 2025 (sotto allegata), la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – ha riconosciuto un principio destinato a ridefinire la responsabilità datoriale in materia di salute e sicurezza: quando un lavoratore subisce un danno grave o fatale per stress lavoro-correlato, è il datore di lavoro – e non il dipendente o i suoi eredi – a dover dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per prevenirlo.
Si consolida così l'orientamento volto a considerare la tutela della salute non più solo come obbligazione contrattuale, ma come dovere costituzionale di garanzia, radicato negli artt. 2, 32 e 41 Cost. L'inversione dell'onere probatorio segna un'evoluzione di sistema: il lavoro è riconosciuto come spazio di dignità e realizzazione umana, e ogni forma di stress distruttivo diviene lesione di un diritto fondamentale.
L'ordinanza n. 26923/2025 rappresenta un punto di svolta nella giurisprudenza italiana sulla responsabilità datoriale per danni da stress lavoro-correlato.
La Corte di Cassazione ha affermato che, una volta dimostrato un legame tra le condizioni di lavoro e il danno alla salute del dipendente, si verifica una inversione dell'onere della prova: spetta al datore di lavoro provare di aver fatto tutto il possibile per evitarlo.
Si tratta di un approccio che sposta il baricentro del processo dal lavoratore – parte debole e meno attrezzata sul piano probatorio – all'impresa, titolare di poteri organizzativi e gestionali.
La sentenza conferma una tendenza ormai consolidata: la responsabilità del datore di lavoro non è più misurata sulla base della colpa individuale, ma sulla mancanza di un sistema preventivo efficace. È la logica della "responsabilità organizzativa", già emersa nel campo della sicurezza industriale e ora pienamente estesa al benessere psico-fisico.
Il principio cardine espresso dalla Corte è netto:
"Quando è provato il nesso tra condizioni di lavoro stressanti e danno alla salute, il datore di lavoro deve dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per prevenirlo."
Non si tratta solo di un tecnicismo processuale. L'inversione dell'onere probatorio, prevista dall'art. 2087 c.c. e costantemente riaffermata dalla Cassazione (tra le altre, Cass. 24217/2023; 16383/2024), incarna una logica solidaristica: il rischio dell'impresa non può essere trasferito sul lavoratore.
La Corte sottolinea che lo stress professionale può derivare non solo da episodi isolati, ma da un "intero atteggiarsi del rapporto di lavoro", fatto di turni eccessivi, mancanza di pause, pressioni continue e cultura aziendale tossica. È un concetto di causalità ampia e sistemica, capace di cogliere le dinamiche reali del lavoro contemporaneo.
La vicenda all'origine della pronuncia riguarda un medico ospedaliero deceduto per infarto, dopo anni di turni massacranti e sovraccarico emotivo.
I familiari avevano agito contro l'amministrazione sanitaria, sostenendo che la patologia fosse stata causata dal lavoro.
La Corte d'Appello aveva respinto la domanda, ritenendo non dimostrato il nesso causale. Ma la Cassazione ha ribaltato la decisione, evidenziando un errore logico: i giudici territoriali avevano trascurato elementi cruciali – l'assenza di patologie pregresse, la documentazione sui turni disumani e il riconoscimento dell'equo indennizzo per causa di servizio.
Gli Ermellini affermano che, una volta dimostrato il legame tra stress e danno, il giudice deve verificare non se il lavoratore abbia colpa, ma se il datore abbia adempiuto al dovere di protezione.
La Cassazione ha dunque censurato la mancata applicazione del principio di inversione della prova, imponendo una lettura sostanziale dell'art. 2087 c.c. come norma di garanzia totale.
La decisione afferma una verità giuridica semplice ma rivoluzionaria: il datore di lavoro non può limitarsi a evitare i rischi noti, ma deve prevedere, monitorare e neutralizzare anche quelli nuovi, derivanti dall'organizzazione stessa.
La salute psichica diviene parte integrante della sicurezza, e il concetto di "ambiente di lavoro sicuro" si estende alla dimensione emotiva e relazionale.
La Cassazione, con un linguaggio fortemente valoriale, dichiara che la tutela della salute non è "una prestazione accessoria", ma il cuore del contratto di lavoro.
L'art. 2087 c.c. non è una norma neutra: è la proiezione concreta dell'art. 32 Cost., che riconosce la salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività.
Pertanto, la prevenzione dello stress e del burnout è oggi parte dell'obbligazione contrattuale principale.
La centralità della tutela della salute è confermata anche dalla recente riforma Cartabia, che con l'introduzione dell'art. 441-ter c.p.c. disciplina le controversie relative al licenziamento del socio lavoratore, riconoscendo la possibilità di impugnare il solo licenziamento, senza necessaria esclusione dalla compagine sociale. Questo rafforza l'idea che la protezione del lavoratore operi anche in assenza di stabilità formale, e che il giudice debba valutare la condotta datoriale in chiave sostanziale e preventiva.
L'ordinanza del 2025 richiama e sviluppa un precedente significativo: Cass. n. 25191/2023, relativa al caso di un autista colpito da infarto dopo anni di lavoro estenuante.
In quella sede, la Suprema Corte aveva riconosciuto non solo il danno biologico, ma anche il danno morale, come "sofferenza interiore e turbamento dell'animo" conseguenti alla malattia professionale.
La nuova pronuncia ribadisce questa visione ampliata: la salute del lavoratore non è solo integrità fisica, ma equilibrio emotivo, fiducia, senso di dignità.
Si afferma così una concezione "umanistica" del risarcimento, in linea con la giurisprudenza europea sui diritti della persona al lavoro.
Il lavoratore danneggiato – o i suoi eredi – non chiedono solo compensazione economica, ma riconoscimento della perdita esistenziale subita per colpa di un'organizzazione disfunzionale.
La Corte di Giustizia UE (causa C-201/15, Borga) impone agli Stati membri di garantire protezione effettiva contro licenziamenti ingiustificati e condizioni lavorative lesive della salute. La Cassazione si allinea a tale orientamento, riconoscendo la salute psico-fisica come parte integrante del diritto al lavoro e della dignità della persona.
Il principio riaffermato dalla Cassazione si innesta su una visione costituzionale del lavoro come diritto alla dignità e alla realizzazione personale.
Il lavoro non è un mero scambio economico, ma un fattore di identità e di appartenenza sociale.
Privare il lavoratore della salute o della serenità necessarie per svolgere la propria attività significa violare il nucleo dei valori fondativi della Repubblica (artt. 1, 2, 3, 32, 35, 41 Cost.).
Il giudice del lavoro è chiamato a bilanciare libertà d'impresa e tutela della persona, imponendo alle aziende un livello di diligenza "massimo", non minimo.
La Cassazione, in questa prospettiva, ricorda che il lavoro deve restare "strumento di vita e non di logoramento".
È un messaggio etico oltre che giuridico: il profitto non può prevalere sulla salute.
L'ordinanza n. 26923/2025 si colloca nel solco di un'evoluzione che vede il diritto del lavoro trasformarsi da diritto della subordinazione a diritto della persona che lavora.
L'inversione dell'onere della prova consolida una visione in cui il datore di lavoro non è solo obbligato a risarcire, ma a prevenire, secondo un principio di responsabilità proattiva.
In termini sistemici, la pronuncia:
Il messaggio è inequivocabile: la salute del lavoratore non è un costo, ma il presupposto etico e giuridico dell'impresa.
Come scriveva Persiani, "la libertà del lavoro coincide con la libertà nella salute".
La Cassazione, con questa decisione, eleva tale principio a rango di regola viva, trasformando il dovere di sicurezza in dovere di umanità.