Nel cuore del processo penale, la competenza non è un mero dato tecnico: è la prima garanzia di legalità. Quando la libertà personale viene toccata da un provvedimento cautelare, è nel giudice che la esercita che si misura la tenuta dello Stato di diritto. È per questo che la sentenza n. 32583 del 2025 delle Sezioni Unite Penali si impone come una pronuncia di sistema: chiamata a risolvere un contrasto, essa riafferma con forza un principio di coerenza e di civiltà giuridica — la competenza non segue l'indizio, ma resta ferma sulla notitia criminis.
La questione, in apparenza minuta, rivela invece una tensione profonda tra certezza della giurisdizione e mutevolezza dell'accertamento indiziario. Il caso, com'è noto, nasce da una misura disposta dal GIP distrettuale di Catania per reati aggravati dal metodo mafioso: il tribunale del riesame, pur confermando la cautela, esclude l'aggravante qualificante. La difesa invoca così l'incompetenza del giudice distrettuale, chiedendo che gli atti vengano trasmessi al GIP di Ragusa. Le Sezioni Unite, nel ricomporre l'alternanza di orientamenti, scelgono la via della stabilità: la competenza distrettuale, una volta radicata in limine litis, resta insensibile alle oscillazioni incidentali.
La Corte ricorda che la competenza funzionale del GIP distrettuale, nei procedimenti ex art. 51, comma 3-bis, c.p.p., è una deroga assoluta alle regole ordinarie, giustificata dalla necessità di concentrare l'attività investigativa e di assicurare un controllo unitario sui reati di maggiore allarme sociale. Come ha acutamente osservato Giovanni Spangher, tale vis attractiva risponde non a logiche di mera efficienza, ma a una precisa finalità pubblicistica di tutela dell'interesse collettivo alla repressione dei reati più gravi, ponendo così un limite invalicabile alla mutevolezza del merito cautelare.
In questa prospettiva, la nozione stessa di competenza si ricollega alla notitia criminisiscritta ex art. 335 c.p.p. e alla contestazione originaria: essa è un attributo che nasce ex lege, non dall'interpretazione successiva. Il giudice distrettuale è tale perché si procede per un reato qualificante, non perché lo si ritenga provato incidenter tantum. La sentenza, con tono fermo, ammonisce che trasformare la competenza in una variabile dell'indizio significherebbe tradire il principio del giudice naturale precostituito per legge. È quanto ha già evidenziato Alberto Alessandri, laddove ricorda che la competenza non può essere abbandonata alle "mutevoli correnti" del giudizio incidentale, pena la sua dissoluzione nel contingente.
La Corte disegna così un sistema coerente, in cui la natura giuridica della competenza si colloca su un piano autonomo rispetto al merito. Il provvedimento cautelare, per quanto incisivo, è atto di applicazione, non di fondazione. Non ha il potere di ridisegnare la geografia del processo, né di spostare i confini della giurisdizione. A sostegno di tale ricostruzione si pone anche la riflessione di Antonio Gaito, secondo cui la competenza cautelare "non può essere frutto di una riqualificazione giudiziale del fatto", ma deve "radicarsi sulla base della contestazione originaria e dell'iscrizione nel registro notizie di reato": un'adesione piena alla prospettiva delle Sezioni Unite, che valorizzano il primato della forma come garanzia di prevedibilità.
Non sfugge tuttavia alla Corte che il processo vive anche di urgenze. L'art. 291, comma 2, c.p.p. — osserva Ettore Marzaduri — attribuisce al giudice incompetente un potere eccezionale, residuale, di intervento cautelare solo in presenza di urgenza effettiva e motivata. Tale previsione, però, non incrina la stabilità della competenza distrettuale, ma ne costituisce piuttosto una valvola di sicurezza, da attivarsi ad horas per evitare pregiudizi irreversibili, in attesa che il giudice naturale riprenda le redini della giurisdizione.
Sullo sfondo, la ratio della pronuncia si staglia con chiarezza: evitare il rischio di una giurisdizione mobile, in cui ogni oscillazione indiziaria produca un mutamento del giudice. La competenza, ammonisce la Corte, non è un riflesso della prova, ma una costante del rito. Essa definisce l'architettura del processo e ne garantisce la stabilità. Così ricomposta, la vicenda riafferma un principio tanto antico quanto dimenticato: nel processo penale, la forma non è orpello ma sostanza di libertà.
Il diritto comparato conferma la bontà di tale impostazione. In Francia e in Germania, la competenza cautelare resta ancorata all'accusa iniziale, salva l'ipotesi di errore manifesto; in Spagna, la riqualificazione non incide sulla giurisdizione funzionale; nel Regno Unito, la jurisdiction cautelare si fissa al momento dell'incriminazione. Il modello italiano, con la sua vis attractiva fondata sulla gravità del reato e sulla concentrazione investigativa, si colloca dunque nel solco delle esperienze più garantiste, dove la stabilità del giudice è condizione della legalità.
Nel disegno complessivo, la sentenza n. 32583/2025 opera una ricomposizione sistemica. Essa restituisce alla competenza cautelare il suo profilo originario di garanzia e certezza, ribadendo che il procedimento cautelare è, come osserva Giuseppe Di Chiara, "incidente e funzionalmente subordinato al procedimento principale": non può, pertanto, alterarne la struttura né la competenza. Il giudice che decide sulla libertà non è una figura estemporanea, ma parte di un'architettura processuale immutabile, plasmata dalla legge e sottratta alla mutevolezza del contingente.
In ultima analisi, la Corte ricorda che la legalità processuale è la prima tutela della libertà personale. Ancorare la competenza al dato formale, e non all'indizio, significa garantire al cittadino che la sua sorte cautelare sarà decisa da un giudice certo, precostituito, immune dalle oscillazioni della prova. E in un tempo in cui la pressione dell'urgenza tende a erodere i margini della forma, questa sentenza suona come un monito e insieme come una promessa: la giurisdizione non è un evento, ma un ordine; e il giudice naturale non è un dettaglio tecnico, ma la voce stessa dello Stato di diritto.
Aldo Andrea Presutto è abilitato all'esercizio della professione forense, con oltre dieci anni di esperienza nel settore delle agenzie per il lavoro. Esperto in diritto del lavoro, diritto penale e compliance, si occupa di redazione atti, consulenza giuridica e formazione. Autore di contributi su tematiche emergenti come l'intelligenza artificiale nei procedimenti disciplinari e la responsabilità organizzativa, unisce rigore tecnico e sensibilità narrativa, con particolare attenzione alla dimensione etica del diritto e alla sua funzione sociale.