
Le infezioni nosocomiali rappresentano da tempo un ambito di numerose controversie giuridiche. A tal proposito, la III Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 17145 del 2025, si è recentemente pronunciata su un caso riguardante un paziente che, a seguito di un ricovero, manifestava un significativo aumento delle transaminasi e, successivamente, la positività al virus HCV.
Le infezioni nosocomiali, oggi anche definite infezioni correlate all'assistenza (ICA), sono quelle infezioni che il paziente può contrarre durante la degenza ospedaliera o immediatamente dopo la dimissione. Per essere qualificate tali, le infezioni non devono essere presenti, manifeste o in fase di incubazione al momento del ricovero e devono insorgere almeno 48 ore dopo l'ingresso in ospedale, fino a un massimo di tre giorni dalla dimissione.
Nel caso in esame, la Corte ha ribadito che, ai fini della dimostrazione del nesso causale ai sensi dell'art. 2697 c.c., il paziente può avvalersi anche di presunzioni semplici, secondo quanto previsto dall'art. 2727 c.c., utilizzando i criteri temporali, topografici e clinici per stabilire la verosimile contrazione dell'infezione in ambito ospedaliero.
L'11 aprile 2011, il paziente (C.C.) si sottoponeva a un intervento di reimpianto di protesi al ginocchio. Al suo ingresso in ospedale, in data 9 aprile 2011, eseguiva gli esami di rito dai quali risultava esclusa la presenza di epatite C. Pochi giorni dopo la dimissione, tuttavia, veniva riscontrato un significativo aumento delle transaminasi e, successivamente, la positività al virus HCV.
Ritenendo di aver contratto l'infezione durante la degenza ospedaliera, il paziente conveniva in giudizio la struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Tribunale e Corte d'Appello rigettavano la domanda, ritenendo che l'attore non avesse fornito prova sufficiente che il contagio fosse avvenuto durante il ricovero e non avesse individuato alcuna condotta specifica – commissiva o omissiva – imputabile alla struttura. La CTU evidenziava che la struttura aveva rispettato le regole igienico-sanitarie nei reparti a rischio e sottolineava l'impossibilità di escludere che l'infezione fosse stata contratta altrove.
Dopo il rigetto dei precedenti gradi, il paziente adiva la Corte di Cassazione denunciando un'errata valutazione del nesso causale secondo il principio del "più probabile che non" e la violazione delle regole sull'onere della prova in caso di infezioni nosocomiali. L'attore sosteneva che la Corte d'Appello avrebbe dovuto considerare le circostanze temporali come elemento sufficiente per provare che il contagio fosse avvenuto in ospedale. Inoltre, secondo la sua tesi, l'ospedale avrebbe dovuto dimostrare l'adozione di tutte le misure preventive (sterilizzazione, protocolli igienici, controllo dei locali e del personale, ecc.), e non limitarsi a dichiarare il rispetto delle regole operative. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata. Ha rilevato la contraddittorietà e l'insufficienza della motivazione della Corte d'Appello, ribadendo che la responsabilità della struttura sanitaria per infezioni nosocomiali si valuta secondo criteri temporali, topografici e clinici e che la prova liberatoria richiede l'indicazione di tutte le misure preventive effettivamente adottate. Non è sufficiente dichiarare genericamente il rispetto delle regole né basarsi su ipotesi astratte circa altre possibili cause di contagio. La causa è stata rinviata alla Corte d'Appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, per un nuovo esame nel rispetto dei principi indicati.
Avv. Rita Milano
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