La disciplina delle responsabilità disciplinari nel pubblico impiego, sebbene ricondotta al regime del diritto comune a seguito del processo di privatizzazione introdotto dal comma 2 dell'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, continua a manifestare peculiarità derivanti dalla natura pubblicistica del datore di lavoro e dagli interessi generali sottesi all'attività amministrativa ai sensi dell'art. 97 Cost.. In tale contesto, il rapporto tra procedimento penale e disciplinare si configura come un terreno complesso, in cui si bilanciano l'esigenza di tutela dell'integrità e dell'immagine della Pubblica Amministrazione con le garanzie fondamentali del dipendente, inclusa la presunzione di innocenza.
Diversi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) dei principali comparti del pubblico impiego privatizzato (es. Funzioni Centrali, Funzioni Locali, Sanità, Istruzione e Ricerca) contengono previsioni disciplinari che destano interrogativi critici. In particolare, diverse clausole analoghe a quella dell'articolo 43, comma 9, punto 2, lettera e) del CCNL Funzioni Centrali (triennio 2019-2021), prevedono il licenziamento senza preavviso per una serie di fattispecie delittuose considerate gravi, quali quelle indicate dagli artt. 7, comma 1, e 8, comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012; quelle che comportano l'interdizione perpetua dai pubblici uffici; quelle previste dall'art. 3, comma 1, della Legge 27 marzo 2001, n. 97; e gravi delitti commessi in servizio. La problematicità risiede nella previsione della loro applicabilità nel caso di "condanna, anche non passata in giudicato", ovvero sulla base di una condanna non definitiva.
È cruciale evidenziare che la previsione del licenziamento per condanna non definitiva non deriva, nella maggior parte dei casi, da un obbligo di legge, ma rappresenta una scelta della contrattazione collettiva. In realtà, la norma primaria di riferimento in tali frangenti è rappresentata dall'art. 32-quinquies del Codice Penale il quale stabilisce che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per determinati reati (soprattutto reati contro la pubblica amministrazione, come peculato, concussione, corruzione, etc.) "comporta di diritto l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni o enti pubblici". Si evidenzia che nel diritto penale, il termine "condanna" si riferisce, in linea di principio, a una sentenza definitiva passata in giudicato giacché il nostro sistema giuridico si fonda sulla presunzione di innocenza sancita dell'art. 27 Costituzione fino alla condanna definitiva. Pertanto, l'estinzione "di diritto" del rapporto di lavoro prevista dall'art. 32-quinquies c.p. si verifica solo quando la condanna penale è diventata irrevocabile. Il CCNL non può derogare in peius (cioè in senso peggiorativo per il lavoratore) a tale norma imperativa di legge, giacché è l'art. 32-quinquies c.p. la norma speciale che definisce gli effetti penali accessori di una condanna. Se una legge dello Stato, in questo caso il Codice Penale, stabilisce che un certo effetto si produce solo a seguito di una condanna definitiva, il contratto collettivo non può quindi anticipare tale effetto, prevedendo il licenziamento automatico per una condanna non definitiva. Il rinvio mobile ai CCNL effettuato dall'art. 55 del d.lgs. 165/2001 non attribuisce infatti un potere illimitato alla contrattazione collettiva. Esso deve essere interpretato in un quadro più ampio e ciò significa che i CCNL possono disciplinare le infrazioni e le sanzioni, ma mai prevedendo un trattamento in peius del lavoratore rispetto a quello previsto dalla legge, innanzitutto dalle basi del Sistema giuridico rappresentate dal Codice Penale. Il rinvio ai CCNL è, in sostanza, un rinvio a una fonte secondaria che non può violare le norme primarie ed in particolare è l'art. 32 quinquies c.p. la legge speciale e di settore, che disciplina in modo specifico i rapporti tra procedimento penale ed il licenziamento. Ben diversamente, il d.lgs. 165 del 2001 è una legge generale sull'ordinamento del lavoro pubblico e nel caso di eventuale conflitto tra una norma speciale e una generale, prevale la legge speciale in base al principio "lex specialis derogat generali" sancito dall'art. 14 delle c.d. Preleggi. Ad ulteriore supporto della sistematicità di questi principi di diritto si evidenzia che laddove la legge prevede effetti diretti di una condanna non definitiva sul rapporto di impiego ad esempio l'art. 4, comma 1 della l. n. 97 del 2001, si tratta solitamente della sospensione dal servizio, mentre il licenziamento è demandato al passaggio in giudicato della sentenza, ovvero nel caso di condanna definitiva ai sensi ed agli effetti dell'art. 5 della medesima l. n. 97 del 2001. Le clausole contrattuali in discussione, quindi, anticipano l'effetto estintivo del rapporto o ne rafforzano la portata rispetto a quanto strettamente previsto dalla legislazione primaria per la fase non definitiva del giudizio penale.
La Corte Costituzionale ha progressivamente consolidato un orientamento rigoroso verso le previsioni normative che stabiliscono automatismi sanzionatori nel settore pubblico, in particolare quando questi elidono ogni discrezionalità in capo all'organo disciplinare. La pronuncia più recente e rappresentativa in tal senso è la Sentenza n. 51 del 2024 (che riprende i principi già affermati nella Sentenza n. 197 del 2018). Questa pronuncia ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 12, comma 5, del d.lgs 109 del 2006, nella parte in cui prevedeva la rimozione automatica del magistrato condannato a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non fosse stata sospesa. La ratio decidendi della Corte Costituzionale si fonda su alcun principi cardine dell'ordinamento costituzionale:
È fondamentale sottolineare che il Giudice delle leggi ha affermato tali principi pur riconoscendo la "particolare criticità" e la necessità di "più rigorosi standard" di condotta richiesti alla magistratura, evidenziando che neppure in un contesto di così elevata delicatezza funzionale è giustificabile un automatismo sanzionatorio che pretermetta il giudizio di proporzionalità. Ne discende, inoltre, la messa in discussione del medesimo automatismo previsto dall'art. 32-quinquies c.p. nel caso di condanna definitiva.
Il confronto tra i principi enunciati dalla suddetta Sentenza n. 51/2024 e le analoghe previsioni presenti in numerosi CCNL del pubblico impiego privatizzato rivela un'evidente e sistemica frizione:
Tale disallineamento configura un paradossale trattamento deteriore per il "semplice" personale del pubblico impiego privatizzato rispetto ai magistrati. Difatti, se per la funzione giurisdizionale, che per sua natura richiede la massima fiducia e integrità, la Costituzione esige una valutazione discrezionale che escluda l'automatismo della sanzione, a maggior ragione tale principio dovrebbe trovare applicazione per tutti gli altri dipendenti pubblici. Le loro funzioni, pur essendo essenziali per il perseguimento degli interessi generali ai sensi dell'art. 97 Cost., non sono equiparabili, per impatto sulla fiducia nel sistema e sulla vita dei consociati, a quelle giurisdizionali.
Inoltre, l'automatismo del licenziamento entra in collisione con alcuni principi espressi dal c.d. Testo Unico del pubblico impiego:
- La previsione del licenziamento per condanna non definitiva, rende di fatto parzialmente inefficace la garanzia della sospensione del procedimento disciplinare in attesa dell'esito penale definitivo. Per la precisione, ai sensi dell'art. 55-ter, comma 1 del d.lgs. 165 del 2001 (richiamato spesso dai CCNL, es. art. 64 CCNL 2018 Funzioni Centrali), si può sospendere il procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale, qualora all'esito dell'istruttoria non si disponga ancora "di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione". Si prenda allora in esame il caso in cui "gli elementi" mancanti al procedimento disciplinare si sostanzino nella mera attesa della sentenza di condanna non definitiva in forza della clausola contrattuale che abilita il licenziamento automatico su tale sola base. In questi casi, dunque, la sospensione prevista dal CCNL non opera più a tutela della presunzione di innocenza per assenza di elementi specifici di prova di comportamenti scorretti del lavoratore, ma serve unicamente a dilazionare fino al giudicato l'applicazione di una sanzione già predeterminata ed automatica, trasformando il procedimento disciplinare in una mera formalità. Si evidenzi inoltre che il d.lgs 165 del 2001, coerentemente alle altre norme di legge in materia, si riferisce sempre a condanne definitive ed al momento del termine del procedimento penale, senza mai far discendere automatismi dalla sola condanna non definitiva.
- Ancora più significativo è il diretto contrasto con l'Art. 55-ter, comma 2, del d.lgs. 165 del 2001, norma di rango primario e, in quanto tale, sovraordinata e regolatrice della contrattazione collettiva in ambito di pubblico impiego. Tale disposizione legislativa stabilisce che "Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, ((ovvero con declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione,)) l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall'irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale." La possibilità prevista dai CCNL dei comparti pubblici di irrogare automaticamente una sanzione radicale come il licenziamento, senza preavviso e sulla sola base di una condanna penale non definitiva, collide perciò frontalmente con la ratio di questa disposizione legislativa. Licenziare un dipendente sulla base di un accertamento penale ancora provvisorio espone infatti l'Amministrazione al rischio concreto e oneroso di dover successivamente riaprire il procedimento disciplinare, con possibili obblighi di reintegra e risarcimento del danno, qualora la sentenza penale definitiva si discosti dall'esito precedente oppure si verifichi l'estinzione per prescrizione del reato, con susseguente travolgimento della sentenza non definitiva su cui si basava il medesimo corrivo licenziamento. Ciò mina non solo la posizione del dipendente, ma anche il principio di buon andamento dell'Amministrazione, costretta a gestire improvvisi ammanchi di personale ed i correlativi onerosi contenziosi derivanti da decisioni premature. La clausola contrattuale, in tale ipotesi, si pone contra legem, eccedendo i limiti negoziali imposti dalla fonte primaria.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione, pur nel rispetto dell'autonomia tra procedimento penale e disciplinare, ha costantemente affermato la necessità di una valutazione autonoma e proporzionata della condotta del dipendente da parte dell'Amministrazione. Non è la mera esistenza di un fatto penalmente rilevante a giustificare la sanzione massima, ma la sua concreta incidenza sul rapporto di lavoro e sul vincolo fiduciario.
Si veda, a titolo esemplificativo, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 8728 del 3 aprile 2024, la quale, pur confermando la legittimità di un licenziamento per giusta causa a seguito di condanna penale definitiva per gravi reati, ha ribadito la necessità di un giudizio di adeguatezza della sanzione alla gravità dei fatti accertati penalmente e alla loro incidenza sulla relazione fiduciaria. Similmente, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 22077 del 24 luglio 2023, pur in un contesto di impiego privato, ha sottolineato come la valutazione della giusta causa di licenziamento per fatti extra-lavorativi debba sempre essere incentrata sulla concreta idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario e a compromettere la prosecuzione del rapporto. Tali pronunce, pur non riguardando direttamente i CCNL del pubblico impiego ma alla luce della c.d privatizzazione del pubblico impiego, delineano un orientamento che mal si concilia con automatismi sanzionatori privi di margini di apprezzamento per l'Ufficio disciplinare.
La rigidità delle clausole dei CCNL del pubblico impiego privatizzato che consentono il licenziamento per condanna penale non definitiva, in assenza di un diretto e stringente obbligo legislativo che imponga tale automatismo per la fase non definitiva, si pone in chiara tensione con i principi di proporzionalità, ragionevolezza e autonomia del giudizio disciplinare, fortemente riaffermati dalla più recente giurisprudenza costituzionale. Il "paradosso" del trattamento più rigoroso per i "semplici" dipendenti del pubblico impiego rispetto ai magistrati, soprattutto per condanne di minor stabilità, emerge in tutta la sua evidenza ed è acuito dal potenziale contrasto con norme di rango legislativo quali l'art. 32-quinquies e l'art. 55-ter, comma 2, del d.lgs. 165 del 2001.
In questo quadro, si ritiene che tali clausole contrattuali possano essere suscettibili di censura in sede giurisdizionale, in quanto potenzialmente lesive delle garanzie costituzionali del lavoratore e contrarie a una norma di legge sovraordinata.
De Jure Condendo, al fine di coniugare le legittime esigenze di tutela dell'immagine e della funzionalità della Pubblica Amministrazione con i principi costituzionali di garanzia per il dipendente, si propone una revisione della normativa contrattuale. In luogo dell'attuale automatismo per condanne non definitive, si potrebbe prevedere un meccanismo che contempli:
1) La sospensione cautelare dal servizio (eventualmente obbligatoria, come già in parte previsto per certi reati dalla l. n. 97 del 2001 e dal d.lgs. n. 165 del 2001), in caso di condanna penale non definitiva ritenuta, a seguito di una valutazione preliminare dell'ufficio per i procedimenti disciplinai, di grave impatto sull'integrità o sulla funzionalità del pubblico impiego. Tale sospensione consentirebbe di allontanare temporaneamente il dipendente in attesa dell'esito definitivo del procedimento penale, tutelando l'interesse pubblico senza pregiudicare irrimediabilmente la posizione del lavoratore o meglio senza esporre l'Amministrazione a onerosi contenziosi ed obblighi risarcitori.
2) La trasformazione della sospensione in licenziamento disciplinare eventuale, da irrogarsi solo a seguito di condanna definitiva e previo svolgimento di un procedimento disciplinare pieno, nel quale sia garantita all'Ufficio per i procedimenti disciplinari la discrezionalità necessaria per valutare la proporzionalità e l'adeguatezza della sanzione alla luce delle circostanze concrete, della gravità dei fatti accertati e della loro effettiva incidenza sulla permanenza del vincolo fiduciario e sull'idoneità del dipendente.
Tale intervento sarebbe volto a garantire che l'applicazione delle sanzioni disciplinari sia sempre informata ai principi di proporzionalità e al rispetto delle garanzie del contraddittorio, anche in presenza di condanne penali, tutelando al contempo la funzionalità e l'immagine della Pubblica Amministrazione. È auspicabile, dunque, che le Organizzazioni Sindacali, in un'ottica di tutela e di allineamento della normativa contrattuale ai principi di diritto più avanzati, avviino un confronto con la parte pubblica al fine di rivedere e sanare tale grave vulnus riscontrato in diverse previsioni dei CCNL.