Le basi della pronuncia
La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso contro la Corte d'Appello di Bologna, che aveva sostanzialmente rigettato il reclamo con il quale si contestava la decisione del giudice di prime cure. Questo, infatti, (Tribunale di Piacenza) aveva giudicato irrilevante il peggioramento delle condizioni economiche del padre e, disponendo l'affidamento condiviso della figlia allora minorenne, aveva mantenuto l'obbligo per il padre di versare 600 € mensili quale contributo al di lei mantenimento in aggiunta al pagamento del 50% delle spese straordinarie. Decisione giustificata con la mancanza di uno stato di necessità, ovvero perché le variazioni retributive in peggio erano conseguenza di una libera scelta della parte nel rapporto di lavoro. L'adesione della Corte di Appello a tale tesi aveva condotto la parte a rivolgersi alla Suprema Corte.
La contestazione e la risposta della Cassazione
Il reclamo riguardava un unico aspetto, ovvero si contestava la "violazione e falsa applicazione … dell'art. 337 ter 4 co. c.c. con inosservanza del principio di proporzionalità ivi previsto con riferimento al contributo al mantenimento dei figli". Difatti, a parere del reclamante, essendo passato dalla condizione di socio di azienda a quella di dipendente le sue condizioni economiche erano peggiorate rispetto al momento in cui era stato quantificato il contributo e quindi il principio di proporzionalità non era più rispettato. Implicitamente, contestava il diritto della corte di sindacare le sue scelte esistenziali che lo avevano condotto a optare per la condizione di dipendente. Oltre tutto per senso di responsablità, ovvero per garantire il contributo alla figlia, uscendo dalla precedente condizione di aleatorietà del guadagno.
Tesi accolta integralmente dalla Suprema Corte: "… la Corte d'Appello - … - ha ritenuto sommariamente di condividere un giudizio di irrilevanza sulle intervenute modifiche peggiorative dei redditi in quanto frutto di una "scelta unilaterale", e non in quanto non incidenti sulla situazione reddituale delle parti cui la determinazione dell'assegno va - tra altre condizioni - parametrata in funzione di una sua proporzionalità come prevista dalla norma dell'art. 337 ter comma 4 c.c. Perciò il ricorso va accolto, e la sentenza va cassata con rinvio alla Corte d'Appello".
Aspetti positivi del provvedimento
Anzitutto si fa apprezzare il fatto che la Suprema corte anziché considerare la richiesta come non ammissibile perché avente ad oggetto questioni di merito (non sarebbe stato sorprendente), abbia, viceversa, deciso di affrontare la questione. È apprezzabile anche, allo stesso tempo, che abbia rilevato l'incongruenza nella risposta della Corte d'appello rispetto alla identificazione della richiesta ricevuta. Rimane il fatto che l giudice di secondo grado appare convinto che -secondo consuetudine - si volesse solo chiedere uno "sconto", rispetto alla cifra precedente. Per cui lì si era fermato. Gli aspetti relazionali e protettivi delle modalità di assolvimento dell'obbligo non vengono colti.
Sicuramente apprezzabile la conclusione, che dimostra come in questa occasione la Suprema corte abbia dedicato al caso la giusta attenzione e abbia contestato la negazione del diritto del cittadino a effettuare le scelte che ritiene più opportune per la prole, rammentando ciò che era avvenuto in altri momenti, ormai superati, rispetto alla procreazione di ulteriore prole, quando la Suprema corte era arrivata a sostenere che, siccome mettere al mondo figli è una scelta e non una necessità, i nuovi arrivati potevano benissimo fruire di condizioni peggiori di benessere rispetto a quelli di primo letto, perché il contributo già stabilito per il loro mantenimento non doveva essere toccato. Contestando la decisione della Corte d'appello conferma, viceversa, la libertà del cittadino di modificare la propria condizione lavorativa e afferma che se da questa deriva un peggioramento della condizione economica di ciò si deve oggettivamente tenere conto. Giova rammentare la tesi opposta – non ancora abbandonata - secondo la quale si deve guardare la capacità di produrre reddito e non il reddito effettivamente percepito e goduto.
Perplessità residue
Al di là di questi positivi aspetti, tuttavia, l'intera vicenda suscita non poche e non piccole perplessità, di natura giuridica e non solo.
Anzitutto si osserva una specie di sordità - o distonia - nel dialogo tra il cittadino e le istituzioni e tra i soggetti implicati e la normativa in vigore. La parte contesta alcuni aspetti, la Corte d'appello non risponde a tono. Così come altrettante perplessità suscita il modo di esprimersi sia della parte che delle corti di giustizia; Suprema inclusa. Non si può fare a meno di osservare come il resoconto faccia riferimento a un affidamento "congiunto", con ciò intendendo l'affidamento "condiviso". Come se si trattasse del medesimo istituto. Rileva, inoltre, il continuo ricorso a una terminologia arcaica e/o giuridicamente inadeguata, come "diritto di visita", "residenza abituale" e via dicendo.
Inoltre, ed è più grave, si discute in ogni grado di giudizio dell'entità dell'assegno – tipica del mantenimento indiretto – e a nessuno viene in mente che l'art. 337 ter c.c. al quarto comma prevede come forma ordinaria quella diretta. A tale proposito, non può non rammentarsi che ormai la stessa Suprema corte la considera prioritaria (v. Cassazione 26697/2023). E pure la parte avrebbe dovuto sollevare la questione della forma adottata, essendovi coinvolta in prima persona.
In definitiva, rammentando le tipologie tipiche, ormai consolidate, presso l'avvocatura (che si esprime in luogo della parte) e presso la magistratura, sembrerebbe di poter dedurre dall'intera vicenda che il disallineamento è effetto di convinzioni così radicate che neppure si fa attenzione alle parole, ai termini e ai contenuti impiegati dall'interlocutore e/o presenti nei testi di legge (benché ormai consolidati). Ognuno rimane fisso nella propria idea e nei propri schemi mentali, per cui già fatica a prestare attenzione all'oggetto del contendere. Meno che mai intende preoccuparsi della cornice, benché non solo formale, ma anche sostanziale.
Forse una riscrittura delle norme – come quella che ristagna in Commissione giustizia del Senato (ddl 832) – potrebbe dare al sistema la necessaria scossa per ridestarne l'attenzione.