La recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione che ha confermato l'espulsione dell'imam Bouchta El Allam, auto proclamatosi Imam del carcere di Alessandria, nonostante il matrimonio con una cittadina italiana, rappresenta un punto di cambio di passo significativo nell'interpretazione del delicato equilibrio tra tutela dei diritti familiari e esigenze di sicurezza pubblica.
Il caso che ha interessato il nostro Tribunale di Torino presenta profili di particolare complessità giuridica. L'imam Bouchta El Allam, cittadino marocchino di 46 anni, era stato condannato nel 2022 dai giudici torinesi a sei mesi di reclusione per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. La sentenza aveva accertato che l'imputato, durante la detenzione presso l'Istituto penitenziario di Alessandria, aveva sfruttato il ruolo di imam per diffondere messaggi di odio durante le riunioni di preghiera, definendo ebrei e cristiani "nemici dei musulmani" e qualificandoli come "scimmie e maiali", arrivando persino ad auspicare che le festività natalizie si trasformassero in un "massacro" e in un "inferno".
Nonostante il vincolo matrimoniale con una cittadina italiana, il Prefetto aveva disposto l'espulsione, ritenendo che la pericolosità sociale dell'interessato per l'ordine e la sicurezza pubblica prevalesse sulla tutela del diritto alla vita familiare. Il Tribunale di primo grado aveva inizialmente accolto l'opposizione, ma la Corte d'Appello di Torino aveva ribaltato la decisione, considerando legittimo il provvedimento espulsivo. La Cassazione ha infine confermato questa impostazione, respingendo il ricorso dell'interessato.
L'analisi giuridica della questione richiede un esame approfondito delle disposizioni del DLgs n. 286/1998, che disciplina la materia dell'immigrazione. L'art. 19 del TU sull'Immigrazione stabilisce infatti un generale divieto di espulsione nei confronti degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana.
Tuttavia, tale protezione non è assoluta. L'art. 13 del medesimo decreto prevede che l'espulsione possa essere disposta dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato anche nei confronti di stranieri non residenti nel territorio nazionale. La norma delinea un sistema di bilanciamento tra la tutela dei diritti fondamentali della persona e le esigenze di sicurezza collettiva.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il matrimonio con un cittadino italiano non costituisce automaticamente una causa ostativa all'espulsione quando ricorrano gravi motivi di ordine pubblico. Come evidenziato dalla Cassazione penale n. 20247/2024, "il rapporto di coniugio con cittadino italiano non costituisce automaticamente giustificato motivo per il trattenimento, potendo essere superato dalla pericolosità sociale dello straniero desunta da precedenti condanne".
La questione centrale della vicenda risiede nel delicato bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato dall'articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, e le esigenze di tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza nazionale. La Corte d'Appello di Torino aveva correttamente individuato questo nodo problematico, affermando che "nel bilanciamento tra esigenze di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e protezione del diritto alla vita privata e familiare, sussistono nel caso in esame profili di carattere pubblico di portata attuale e imperiosa tali da giustificare la limitazione del diritto al soggiorno".
La giurisprudenza consolidata della Cassazione ha stabilito che tale bilanciamento deve essere effettuato caso per caso, attraverso una valutazione concreta della pericolosità sociale del soggetto. Come precisato dalla Cassazione civile n. 25332/2023, "il divieto di allontanamento per ragioni di rispetto della vita privata e familiare non opera automaticamente, ma richiede un bilanciamento tra le esigenze di tutela dei legami familiari e le ragioni di sicurezza nazionale e ordine pubblico".
Il giudice deve effettuare "una valutazione in concreto della pericolosità sociale attuale dello straniero, non potendosi limitare al mero riscontro di precedenti penali". Tuttavia, quando emergano "comportamenti indicativi di un'indole pericolosa e di una concreta minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza, tali esigenze prevalgono sugli altri elementi di valutazione".
Un aspetto particolarmente significativo della vicenda riguarda la tipologia dei reati contestati. I crimini di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa assumono una gravità particolare nel contesto della sicurezza pubblica, in quanto potenzialmente idonei a generare tensioni sociali e a compromettere la coesione del tessuto sociale.
La Cassazione ha chiarito che per tali tipologie di reati "non scatta la tutela prevista dall'articolo 8 della Corte europea dei diritti dell'uomo, a protezione della vita privata e familiare". Questa affermazione deve essere intesa nel senso che la gravità dei comportamenti tenuti e la loro potenziale capacità di ledere l'ordine pubblico rendono prevalenti le esigenze di sicurezza rispetto alla tutela dei vincoli familiari.
La condotta dell'imam, come accertata dai giudici torinesi, presentava infatti caratteri di particolare allarme sociale. L'utilizzo del ruolo religioso per diffondere messaggi di odio e discriminazione, l'incitamento alla violenza contro specifiche comunità religiose e l'auspicio di eventi tragici durante le festività cristiane configurano comportamenti che vanno ben oltre la mera espressione di opinioni religiose, integrando vere e proprie condotte di istigazione all'odio razziale e religioso.
Un ulteriore profilo di interesse riguarda la valutazione dell'effettività dei vincoli familiari. La giurisprudenza ha costantemente affermato che il mero vincolo matrimoniale non è sufficiente a escludere l'espulsione se non accompagnato da una effettiva convivenza e da rapporti familiari sostanziali.
Come evidenziato dalla Cassazione penale n. 23449/2024, "il rapporto di coniugio con un cittadino italiano non attribuisce automaticamente al coniuge straniero né la cittadinanza italiana né il permesso di soggiorno, e costituisce causa ostativa all'espulsione solo in presenza di effettiva convivenza". La norma richiede infatti che sussista una "convivenza" effettiva, non limitandosi al mero status giuridico del matrimonio.
Nel caso in esame, dalle risultanze processuali emergeva che non sussisteva una effettiva convivenza tra i coniugi, elemento che ha contribuito a rendere prevalenti le esigenze di sicurezza pubblica rispetto alla tutela del vincolo familiare.
Dal punto di vista della pratica forense, questa pronuncia offre importanti indicazioni operative per i professionisti che si occupano di diritto dell'immigrazione. In primo luogo, emerge chiaramente che la strategia difensiva non può limitarsi a invocare l'esistenza di vincoli familiari con cittadini italiani, ma deve necessariamente dimostrare l'effettività di tali rapporti attraverso elementi probatori concreti.
La Cassazione civile n. 5384/2025 ha precisato che "il Giudice di Pace, in sede di convalida del provvedimento espulsivo, deve necessariamente effettuare una valutazione concreta ed attuale della pericolosità sociale dello straniero, non potendosi limitare a un mero richiamo dei precedenti penali".
Tuttavia, quando la pericolosità sociale risulti accertata attraverso comportamenti gravi e attuali, essa può prevalere sui vincoli familiari.
È inoltre necessario considerare che la giurisprudenza richiede una dimostrazione puntuale dell'effettiva convivenza e dei rapporti di dipendenza economica e affettiva. Come chiarito dalla Cassazione Civile n. 7695/2023, la valutazione "deve considerare tutti gli elementi qualificanti l'effettività delle relazioni familiari, quali il rapporto di coniugio, la durata del matrimonio, la nascita di figli e la loro età, la convivenza, la dipendenza economica dei figli maggiorenni".
Nonostante la prevalenza accordata alle esigenze di sicurezza pubblica, la giurisprudenza non ha mai messo in discussione l'importanza della tutela dei diritti fondamentali della persona. La Cassazione civile n. 24108/2024 ha ribadito che "il diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato dall'art. 8 CEDU e rientrante nel catalogo aperto dei diritti fondamentali connessi alla dignità della persona ex artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost., impone una valutazione globale e non meramente formale delle condizioni ostative all'espulsione".
Tuttavia, tale tutela non configura "diritti tiranni" sottratti a qualsiasi bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente protette. Il giudice deve effettuare "una disamina approfondita che tenga conto di elementi quali la durata della permanenza sul territorio nazionale, la regolarità della posizione lavorativa del coniuge, la presenza di figli minori e il loro radicamento sociale".
La pronuncia in esame si inserisce in un orientamento giurisprudenziale consolidato che tende a valorizzare le esigenze di sicurezza pubblica quando si tratti di reati particolarmente gravi o che presentino profili di allarme sociale. Questo approccio appare coerente con l'evoluzione del diritto dell'immigrazione europeo, che sempre più spesso riconosce agli Stati membri ampi margini di discrezionalità nella gestione dei flussi migratori e nella tutela dell'ordine pubblico.
Tuttavia, è importante sottolineare che tale orientamento non comporta un automatismo espulsivo, ma richiede sempre una valutazione caso per caso, attenta alle specificità della situazione concreta. Come evidenziato dalla Cassazione penale n. 19311 del 2025, "per invocare l'esistenza di condizioni ostative all'espulsione connesse a esigenze di natura familiare, è necessario fornire dimostrazione concreta e verificabile della presenza di congiunti sul territorio nazionale e dell'effettiva sussistenza di rapporti familiari significativi".
La vicenda dell'imam El Allam rappresenta un caso paradigmatico delle tensioni che attraversano il diritto dell'immigrazione contemporaneo.
Da un lato, l'esigenza di tutelare i diritti fondamentali della persona e l'unità familiare; dall'altro, la necessità di preservare l'ordine pubblico e la sicurezza nazionale di fronte a comportamenti che possono compromettere la coesione sociale.
La soluzione adottata dalla Cassazione appare equilibrata e rispettosa del quadro normativo vigente. Il riconoscimento della prevalenza delle esigenze di sicurezza pubblica non comporta infatti una negazione dei diritti familiari, ma piuttosto la loro subordinazione a interessi di rango superiore quando si tratti di comportamenti particolarmente gravi.
Dal punto di vista della pratica forense, la pronuncia offre importanti indicazioni metodologiche.
La strategia difensiva deve necessariamente articolarsi su più livelli: la dimostrazione dell'effettività dei vincoli familiari, la contestazione della valutazione di pericolosità sociale operata dall'autorità amministrativa, l'allegazione di elementi ostativi specifici all'espulsione.
Particolare attenzione deve essere prestata alla documentazione probatoria, che deve essere puntuale e circostanziata.
Non è sufficiente invocare genericamente l'esistenza di vincoli familiari, ma occorre dimostrare concretamente l'effettività della convivenza, la dipendenza economica, l'inserimento sociale del nucleo familiare.
La vicenda conferma inoltre l'importanza di una difesa tecnica qualificata e specializzata nel diritto dell'immigrazione.
La complessità delle questioni giuridiche coinvolte e la necessità di un approccio multidisciplinare che tenga conto degli aspetti penalistici, amministrativi e costituzionali richiedono competenze specifiche e aggiornate.
In prospettiva, è prevedibile che la giurisprudenza continui a sviluppare criteri sempre più raffinati per il bilanciamento tra diritti individuali e esigenze collettive. L'evoluzione del contesto sociale e l'emergere di nuove forme di criminalità richiedono infatti strumenti giuridici adeguati e flessibili, capaci di adattarsi alle sfide del tempo presente senza rinunciare alla tutela dei principi fondamentali dell'ordinamento.
Il foro di Torino si trova spesso crocevia dei temi all'avanguardia del diritto dell'immigrazione che poi andranno alla ribalta nazionale.
La sentenza della Cassazione rappresenta, in questo senso, un importante tassello nell'evoluzione del diritto dell'immigrazione italiano, destinato a influenzare significativamente la giurisprudenza futura e la pratica professionale del settore.
Erik Stefano Carlo Bodda è avvocato del foro di Torino, già iscritto nei fori di Madrid e Parigi ed abilitato alle difese avanti le Giurisdizioni Superiori.
Ha conseguito il diploma presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali della LUISS e ha operato in Europa, Africa, America latina e Medioriente.
È fondatore dello studio legale BODDA & PARTNERS con sedi in Italia e all'estero.