È arrivata come un fulmine a ciel sereno la richiesta del Tribunale dei Ministri che ha investito tre dei più importanti esponenti del governo Meloni: il Guardasigilli Carlo Nordio, il Ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Una vicenda che, al di là delle implicazioni politiche, pone questioni giuridiche di straordinaria complessità e che segnerà inevitabilmente la storia costituzionale italiana.
Come avvocato che da anni si occupa di diritto penale e costituzionale, posso affermare senza esitazione che ci troviamo di fronte a un caso destinato a fare giurisprudenza, non solo per la rilevanza dei soggetti coinvolti, ma soprattutto per le questioni di diritto internazionale e costituzionale che solleva.
Tutto inizia il 18 gennaio 2025, quando la Corte Penale Internazionale emette un mandato di arresto nei confronti di Osama Elmasry/Almasri Njeem, generale libico accusato di crimini di guerra e contro l'umanità. Il soggetto, capo della temuta Rada Force che controlla l'aeroporto di Mitiga e diversi quartieri di Tripoli, viene arrestato il giorno successivo a Torino dalla DIGOS.
Fin qui, tutto sembra procedere secondo le regole della cooperazione giudiziaria internazionale. Ma è proprio da questo momento che, secondo il Tribunale dei Ministri, inizia una catena di omissioni e azioni che porterà alla liberazione e al rimpatrio del generale libico.
La contestazione più pesante riguarda il Guardasigilli Carlo Nordio, accusato di omissione di atti d'ufficio aggravata. Secondo gli inquirenti, il Ministro avrebbe indebitamente rifiutato di dare corso alle richieste di cooperazione della Corte Penale Internazionale, mantenendo un silenzio che si è protratto fino alla scarcerazione disposta dalla Corte d'Appello di Roma.
Il Tribunale dei Ministri è categorico: "Contrariamente a quanto sostenuto dal ministro Nordio, la legge non gli attribuisce alcun potere discrezionale ma, anzi, lo investe della funzione di garante del buon esito della procedura". Una posizione che demolisce la linea difensiva del Guardasigilli, che aveva sostenuto di dover valutare la legittimità del mandato di arresto.
Tutti e tre gli indagati sono accusati di concorso in favoreggiamento personale aggravato. L'accusa è di aver scientemente aiutato Almasri a sottrarsi alle investigazioni della CPI attraverso una serie di azioni coordinate: l'inerzia di Nordio, il decreto di espulsione di Piantedosi e l'organizzazione del volo di Stato da parte di Mantovano.
Particolarmente significativo è il passaggio degli atti in cui si legge: "Sia i ministri Nordio e Piantedosi, sia il sottosegretario Mantovano erano perfettamente consapevoli del contenuto delle richieste di cooperazione inviate dalla CPI e, in particolare, del mandato di arresto spiccato nei confronti dell'Almasri".
Per Piantedosi e Mantovano si aggiunge l'accusa di peculato per l'utilizzo dell'aereo della Compagnia Aeronautica Italiana (CAI) e del carburante necessario per il rimpatrio. Il Tribunale ritiene che il volo sia stato disposto non per reali esigenze di sicurezza, ma per consentire ad Almasri di sottrarsi al mandato di cattura internazionale.
Uno degli aspetti più interessanti dell'inchiesta riguarda le motivazioni che avrebbero spinto i tre indagati ad agire in questo modo. Secondo il Tribunale dei Ministri, "l'effettiva e inespressa motivazione" delle loro condotte sarebbe da ricercare "nelle preoccupazioni palesate dal Prefetto Caravelli, nell'ambito delle riunioni intercorse tra i vertici istituzionali, riferite a possibili ritorsioni per i cittadini e gli interessi italiani in Libia".
In altre parole, la paura di rappresaglie contro i circa 500 cittadini italiani presenti in Libia e contro gli interessi economici nazionali (in particolare quelli dell'ENI) avrebbe guidato le decisioni del governo. Una motivazione comprensibile dal punto di vista politico, ma che non può giustificare, secondo i giudici, la violazione degli obblighi internazionali dell'Italia.
Dal punto di vista strettamente giuridico, il caso presenta profili di straordinaria complessità. La questione centrale riguarda l'interpretazione della legge 237/2012, che disciplina la cooperazione dell'Italia con la Corte Penale Internazionale.
Il Tribunale dei Ministri sostiene che questa legge non lascia margini di discrezionalità al Ministro della Giustizia, configurandolo come un mero "tramite" delle richieste di cooperazione. Una interpretazione rigorosa che si scontra con la tradizionale concezione dell'attività ministeriale come espressione di valutazioni politiche.
Particolarmente interessante è la qualificazione degli atti contestati. I giudici escludono categoricamente che si tratti di "atti politici" sottratti al sindacato giurisdizionale, qualificandoli invece come "atti di alta amministrazione" pienamente sindacabili. Una distinzione sottile ma fondamentale, che apre la strada al processo penale.
Un elemento chiave della vicenda è la decisione della Corte d'Appello di Roma del 21 gennaio 2025, che ha disposto la scarcerazione di Almasri per vizi procedurali. I giudici romani avevano ritenuto che l'arresto fosse avvenuto in violazione della procedura prevista dalla legge 237/2012, che richiede il preventivo coinvolgimento del Ministro della Giustizia.
Questa decisione, pur tecnicamente corretta, ha di fatto reso possibile la liberazione e il successivo rimpatrio del generale libico, alimentando le polemiche politiche e fornendo argomenti alla difesa degli indagati.
La richiesta di autorizzazione a procedere dovrà ora essere esaminata dalla Camera dei Deputati, che ha sessanta giorni per decidere. Le probabilità di concessione dell'autorizzazione appaiono, realisticamente, molto basse.
Il governo gode di una solida maggioranza parlamentare e l'art. 9 della Legge Costituzionale 1/1989 consente alle Camere di negare l'autorizzazione quando ritengano che l'inquisito abbia agito "per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo".
Proprio questa norma potrebbe rappresentare la via d'uscita per i tre indagati. La tutela dei cittadini italiani in Libia e la protezione degli interessi economici nazionali potrebbero essere considerati "preminenti interessi pubblici" tali da giustificare il diniego dell'autorizzazione.
Indipendentemente dall'esito del procedimento parlamentare, il caso Almasri avrà conseguenze durature sui rapporti tra Italia e giustizia internazionale. La vicenda evidenzia le tensioni irrisolte tra sovranità nazionale e obblighi internazionali, questione destinata a riproporsi con crescente frequenza.
Dal punto di vista politico, la gestione della crisi da parte del governo Meloni appare finora abile. La Premier ha rivendicato la piena condivisione delle decisioni prese, trasformando quello che poteva essere un problema per i singoli ministri in una questione di fiducia per l'intero esecutivo.
Il caso Almasri rappresenta un banco di prova per la tenuta del sistema costituzionale italiano di fronte agli obblighi internazionali. La richiesta del Tribunale dei Ministri, pur tecnicamente fondata, si scontra con valutazioni di opportunità politica che difficilmente consentiranno l'autorizzazione a procedere.
Tuttavia, al di là dell'esito processuale, la vicenda pone questioni di fondo che non possono essere eluse. È necessaria una riflessione approfondita sui limiti dell'azione di governo quando sono in gioco obblighi internazionali e diritti fondamentali. La sovranità nazionale non può essere un alibi per sottrarsi agli impegni assunti con la comunità internazionale.
Come giurista, ritengo che questa vicenda segnerà un prima e un dopo nei rapporti tra politica e giustizia in Italia. Indipendentemente dall'esito, il caso Almasri entrerà nei manuali di diritto costituzionale come esempio paradigmatico delle tensioni tra ragion di Stato e rule of law nell'era della globalizzazione giuridica.