
Nell'agosto del 2025, mentre il mondo osserva con crescente inquietudine gli sviluppi nella Striscia di Gaza, la comunità giuridica internazionale si trova di fronte a una delle questioni più complesse e controverse del nostro tempo: quando un'azione militare può essere qualificata come genocidio" La risposta a questa domanda non è meramente accademica, ma comporta conseguenze giuridiche, politiche e morali di portata storica che richiedono un'analisi rigorosa e senza compromessi, illuminata dalle più profonde riflessioni filosofico-giuridiche del nostro tempo.
Come giurista specializzato in diritto internazionale umanitario, devo confessare che la mia posizione su quanto sta accadendo a Gaza ha subito un'evoluzione significativa nel corso degli ultimi mesi. Inizialmente, un mese dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, ritenevo ci fossero prove evidenti che l'esercito israeliano avesse commesso crimini di guerra e potenzialmente crimini contro l'umanità nella sua controffensiva su Gaza. Tuttavia, al contrario di quanto sostenevano gli accusatori più severi di Israele, le prove all'epoca non mi sembravano sufficienti per arrivare al crimine di genocidio.
Il punto di svolta è arrivato nel maggio 2024, quando le forze armate israeliane hanno ordinato a circa un milione di palestinesi rifugiati a Rafah – la città più meridionale e l'ultima rimasta relativamente intatta della Striscia di Gaza – di trasferirsi nella zona costiera di Mawasi, dove non c'erano quasi ripari.
L'intenzione genocida, elemento costitutivo fondamentale del crimine, può essere dedotta non solo dalle dichiarazioni esplicite, ma anche dal "metodo delle operazioni sul campo". Nel caso di Israele, questa intenzione è stata espressa pubblicamente da numerosi leader e funzionari pubblici. Ma l'intenzione può anche essere dedotta dal metodo delle operazioni sul campo, e questo metodo è diventato chiaro nel maggio 2024 – e poi sempre più evidente – con la distruzione sistematica della Striscia di Gaza per mano delle forze armate israeliane.
Come ha osservato il professor Omer Bartov della Brown University, uno dei massimi esperti mondiali di genocidio: "Sono uno studioso di genocidio. Lo riconosco quando lo vedo". Questa affermazione, nella sua apparente semplicità, racchiude decenni di studio e riflessione sui meccanismi più oscuri della natura umana.
Per comprendere appieno la portata di quanto sta accadendo a Gaza, è necessario attingere alle più profonde riflessioni della filosofia del diritto. Hans Kelsen, con la sua teoria pura del diritto, ci ha insegnato che la "teoria pura del diritto spiega anche il diritto dello Stato nazista, però senza giustificarlo". Questa distinzione fondamentale tra spiegazione e giustificazione è cruciale quando analizziamo le operazioni israeliane a Gaza: possiamo comprendere la logica giuridica che sottende certe azioni senza per questo legittimarle moralmente o giuridicamente.
Norberto Bobbio, il grande maestro del diritto e della filosofia politica italiana, ci ha ricordato che "il problema di fondo relativo ai diritti dell'uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico". Questa osservazione assume una rilevanza drammatica nel contesto di Gaza, dove la protezione dei diritti umani fondamentali è stata sistematicamente negata.
Ma è forse Hannah Arendt, con la sua penetrante analisi della "banalità del male", a offrirci la chiave interpretativa più illuminante per comprendere la natura di quanto sta accadendo.
Il più grande antidoto alla banalità del male è la responsabilità individuale, la coscienza critica attiva. Nel caso di Gaza, assistiamo a una sistematica deresponsabilizzazione che permette la perpetrazione di atti che, nella loro apparente "normalità" burocratica e militare, celano una mostruosità senza precedenti.
Nel pensiero di H. Arendt per un essere umano è male l'essere un inconsapevole volontario, il braccio intenzionalmente inconsapevole di qualcun altro, ed è qualcosa di estremamente comune e banale, che il potere può organizzare e utilizzare in moltissime maniere. Questa riflessione assume una rilevanza agghiacciante quando consideriamo le dichiarazioni di funzionari israeliani che parlano di "animali umani" e di "distruzione totale", riducendo un intero popolo a una categoria subumana.
La Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio del 1948 definisce il genocidio come qualsiasi atto commesso "con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale". La Convenzione sul genocidio parla di azioni compiute con l'intento di distruggere un gruppo in tutto o in parte. Azioni che, secondo il documento, non riguardano unicamente le uccisioni, ma anche il creare le condizioni che rendono impossibile la sopravvivenza del gruppo, nonché impedire le nascite o causare gravi danni alla nascita.
È fondamentale comprendere che genocidio, ovvero la distruzione di un gruppo in quanto tale, non è necessariamente l'uccisione di tutti i membri del gruppo, ma il fatto di rendere quel gruppo incapace di ricostituirsi in seguito. Questa definizione è cruciale per comprendere la natura degli eventi che si stanno svolgendo a Gaza.
Nel nostro ordinamento interno, il riconoscimento della gravità di tali crimini trova espressione nell'art. 604-bis del Codice penale, che punisce con particolare severità la propaganda e l'istigazione fondate sulla negazione, minimizzazione o apologia "della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale".
La giurisprudenza italiana ha chiarito che i crimini di guerra o contro l'umanità sono le violazioni gravi delle norme di diritto umanitario poste a tutela della vita e dell'integrità fisica e psichica delle persone della popolazione civile che non prendono parte alle ostilità. Questi crimini possono includere "omicidi, torture, stupri, deportazioni forzate, attacchi indiscriminati contro la popolazione civile e uso di armi proibite".
Le dichiarazioni di funzionari governativi e militari israeliani hanno fornito prove inequivocabili dell'intenzione genocida. I funzionari hanno affermato di combattere "animali umani" e hanno invocato una "distruzione totale". Nissim Vaturi, vicepresidente del parlamento, ha dichiarato su X che il compito di Israele doveva essere quello di "cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della terra". Queste non sono mere espressioni retoriche, ma manifestazioni di un'intenzione specifica che, combinata con le azioni concrete sul terreno, configura gli elementi costitutivi del genocidio secondo la Convenzione del 1948.
La sistematicità delle operazioni rappresenta l'aspetto più significativo dell'analisi giuridica. Le azioni di Israele sembrano parte di un piano più ampio di occupazione, con lo "svuotamento" della popolazione civile, che rappresenta "la prova più palese di intenzioni genocidiarie" secondo i principi della Convenzione ONU del 1948. Impedire l'accesso al cibo e alla sanità non si limita a distruggere un gruppo etnico, ma viola i diritti fondamentali di sopravvivenza in modo sistematico e intenzionale.
La distruzione sistematica di enormi aree urbane, l'evacuazione forzata di quasi tutta la popolazione civile e la restrizione di cibo, acqua e generi di prima necessità, che ha provocato numerose morti per fame, costituiscono azioni che vanno ben oltre la legittima difesa o le normali operazioni militari. Questi elementi configurano chiaramente la violazione dell'articolo II della Convenzione sul Genocidio, che include tra gli atti genocidi "il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale".
Carl Schmitt, il controverso giurista tedesco, aveva teorizzato che il nemico legittimo è lo Stato avversario, anch'esso sovrano, in un contesto dove i cittadini sono carne da macello in un perenne stato di guerra. Ma quello che vediamo a Gaza va oltre anche la più cinica concezione schmittiana del nemico: qui non si tratta di riconoscere un avversario politico legittimo, ma di negare l'umanità stessa dell'altro.
La riduzione dei palestinesi a "animali umani" rappresenta quella che Arendt chiamava la "superfluità" dell'essere umano, il primo passo verso la sua eliminazione fisica. La banalità del male non è sembrato incorniciare gli standard soliti di male, come patologia, interesse personale, di condanna ideologica di chi lo fa. È proprio questa "normalità" burocratica e militare che rende possibile l'impensabile.
Alcuni commentatori, nel tentativo di negare la natura genocida delle operazioni israeliane, hanno sostenuto che "se l'intenzione fosse quella, i morti sarebbero molti di più". Trovo questa tesi davvero strana e giuridicamente infondata. Il genocidio non si misura esclusivamente attraverso il numero delle vittime, ma attraverso l'intenzione specifica di distruggere un gruppo e le modalità sistematiche con cui tale intenzione viene perseguita.
Come ci insegna la giurisprudenza consolidata, i crimini contro l'umanità possono verificarsi anche nel contesto di un conflitto armato, purché sussista l'intenzione specifica di distruggere un gruppo protetto. I Tribunali Penali Internazionali per il Ruanda e per l'ex-Jugoslavia hanno stabilito precedenti fondamentali in questo senso, dimostrando che la qualificazione giuridica di genocidio non dipende dalla completezza numerica della distruzione, ma dalla presenza del dolus specialis genocida.
In questo contesto di crescente evidenza giuridica, la posizione espressa dalla senatrice Liliana Segre merita un'analisi approfondita e, purtroppo, una confutazione necessaria dal punto di vista strettamente giuridico. Segre ha sostenuto che "nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali", identificando questi caratteri nella "pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell'etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria" e nell'"assenza di un rapporto funzionale con una guerra".
Tuttavia, questa interpretazione appare eccessivamente restrittiva e non conforme all'evoluzione del diritto internazionale e della giurisprudenza delle corti internazionali. La Convenzione del 1948 non richiede che il genocidio sia "completo" nelle intenzioni, ma si riferisce esplicitamente alla distruzione "in tutto o in parte" di un gruppo. La giurisprudenza del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda e per l'ex-Jugoslavia ha chiarito inequivocabilmente che il genocidio può verificarsi anche nel contesto di un conflitto armato.
La preoccupazione di Segre riguardo all'"abuso della parola genocidio" è comprensibile dal punto di vista umano e storico, ma non può prevalere sull'analisi giuridica oggettiva dei fatti. Come ci ha insegnato Bobbio, il diritto non può essere subordinato a considerazioni di opportunità politica o di sensibilità storica, per quanto legittime possano essere. Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio maturò la convinzione della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo della politica ideologizzata. Questa lezione vale anche oggi: il diritto internazionale non può essere piegato alle esigenze della politica.
La mia posizione non è isolata nel panorama accademico internazionale. Dopo 19 mesi di mattanza, vi è un sempre più ampio consenso internazionale fra i giuristi, esperti di genocidio e dell'Olocausto, inclusi ebrei israeliani ed ebrei americani, sulla caratterizzazione di ciò che sta avvenendo.
Particolarmente significativa è la testimonianza di Daniel Blatman, storico israeliano che ha dichiarato: "Da 40 anni mi occupo dell'Olocausto… Non avrei mai immaginato nei miei peggiori incubi che lo Stato ebraico, Israele, avrebbe bombardato a morte migliaia di bambini palestinesi affamati". Questa dichiarazione assume un peso particolare considerando la provenienza da uno studioso che ha dedicato la sua carriera allo studio della Shoah.
Per la prima volta, nel luglio 2025, due ONG israeliane hanno accusato il proprio paese di genocidio, segnalando come i massacri compiuti nella Striscia stiano lentamente cambiando l'opinione della guerra anche all'interno di Israele. Questo sviluppo è particolarmente significativo perché dimostra che la valutazione giuridica degli eventi trascende le divisioni nazionali e politiche, basandosi su criteri oggettivi di diritto internazionale.
L'analisi giuridica degli eventi di Gaza rivela un quadro di violazioni sistematiche del diritto internazionale che va ben oltre i singoli episodi. In totale impunità, Israele ha violato 40 risoluzioni delle Nazioni Unite, tre ordinanze di misure cautelari della Corte internazionale di giustizia, inclusa quella emessa a febbraio del 2024, che chiedeva a Israele di aprire i varchi e di far entrare gli aiuti umanitari, cibo medicine e acqua, alla popolazione affamata di Gaza.
La sistematicità di queste violazioni non può essere considerata casuale o collaterale. Dopo 500 dichiarazioni genocide di esponenti del governo, esercito, politica e media, raccolte in un opportuno database, l'avvocato francese israeliano Omar Schatz ha deciso di fare causa al governo israeliano per incitamento al genocidio.
Il quadro che emerge è quello di una strategia deliberata che utilizza la fame come arma di guerra. "A Gaza non entra nulla da più di 50 giorni. Stiamo assistendo alla soluzione di Israele alla questione palestinese: Israele usa la fame per rimuovere un intero popolo, considerato l'equivalente delle bestie e delle cavallette". Questa strategia configura chiaramente la violazione dell'articolo II della Convenzione sul Genocidio.
Come stabilito dalla giurisprudenza italiana, la deroga al principio dell'immunità è riconosciuta in caso di crimini internazionali lesivi di diritti fondamentali della persona (cd. delicta imperii), quando tali crimini configurano una immediata, diretta e deliberata aggressione a tali diritti.
Come giurista e come essere umano, ritengo che si tratti di "un totale fallimento morale ed etico da parte dei Paesi che pretendono di essere i principali protettori dei diritti civili, della democrazia e dei diritti umani nel mondo". La mancanza di una risposta adeguata da parte della comunità internazionale rischia di creare un precedente pericoloso che potrebbe incoraggiare future violazioni del diritto internazionale umanitario.
Kelsen ci ha insegnato che l'ordine giuridico non può derivare semplicemente da una norma fondamentale astratta, ma deve confrontarsi con la realtà degli atti di forza. Nel caso di Gaza, assistiamo a un atto di forza che pretende di legittimarsi attraverso il diritto, ma che in realtà lo viola sistematicamente.
Il caso di Gaza dimostra l'urgente necessità di riformare i meccanismi di enforcement del diritto internazionale. Il potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha impedito l'adozione di misure efficaci per fermare le violazioni, evidenziando i limiti strutturali del sistema attuale. È necessario sviluppare meccanismi alternativi che permettano alla comunità internazionale di intervenire efficacemente quando si verificano crimini di questa portata.
Hannah Arendt ci ha insegnato che la banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali. Nel caso di Gaza, assistiamo a una sistematica sospensione della facoltà di giudizio, sostituita da una logica burocratica e militare che rende possibile l'impensabile.
La lezione di Arendt è particolarmente pertinente quando consideriamo le dichiarazioni di funzionari israeliani che parlano di "soluzione finale" per Gaza. Non si tratta di mostri, ma di burocrati e militari che, nella loro apparente normalità, perpetrano atti di una mostruosità inaudita. È questa "normalità" che rende possibile il genocidio.
L'analisi degli eventi di Gaza alla luce del diritto internazionale porta a conclusioni inequivocabili. Le prove raccolte da studiosi di fama internazionale, supportate da un crescente consenso accademico, dimostrano che le operazioni israeliane nella Striscia di Gaza configurano gli elementi costitutivi del crimine di genocidio secondo la Convenzione del 1948.
La sistematicità delle operazioni, l'intenzione dichiarata di rendere Gaza inabitabile per la popolazione palestinese, l'uso della fame come arma di guerra e la distruzione deliberata delle infrastrutture civili costituiscono un insieme di prove che non può essere ignorato dalla comunità giuridica internazionale.
Come ci ha insegnato Bobbio, quando si tratta di enunciarli l'accordo è ottenuto con relativa facilità, indipendentemente dalla maggiore o minore convinzione del loro fondamento assoluto: quando si tratta di passare all'azione, fosse pure il fondamento indiscutibile, cominciano le riserve e le opposizioni. È esattamente quello che sta accadendo con Gaza: tutti concordano sui principi, ma quando si tratta di applicarli concretamente, iniziano le resistenze.
La responsabilità della comunità giuridica internazionale è ora quella di trarre le conseguenze appropriate da questa analisi. Non si tratta di una questione politica o ideologica, ma di applicazione rigorosa del diritto internazionale. Il silenzio o l'inazione di fronte a prove così evidenti costituirebbe una violazione dei principi fondamentali su cui si basa l'ordine giuridico internazionale.
Gli eventi di Gaza rappresentano una pagina buia della storia contemporanea, ma possono anche costituire un momento di svolta per il rafforzamento del diritto internazionale umanitario. La comunità internazionale ha l'opportunità e il dovere di dimostrare che le norme fondamentali del diritto internazionale non sono mere dichiarazioni di principio, ma regole vincolanti che devono essere rispettate da tutti gli Stati, indipendentemente dalla loro posizione geopolitica.
Come giurista e come pensatore, sento il peso della responsabilità che deriva dalla conoscenza. Parafrasando Kant, potremmo dire che esiste un imperativo categorico del diritto internazionale: agisci in modo che la tua azione possa diventare legge universale. Se permettiamo che Gaza diventi un precedente, se accettiamo che la fame possa essere usata come arma di guerra, se tolleriamo che un intero popolo venga ridotto alla condizione di "animali umani", allora stiamo legittimando un modello che potrà essere replicato ovunque.
Solo attraverso un'applicazione coerente e imparziale del diritto internazionale sarà possibile prevenire future tragedie e costruire un mondo in cui la giustizia prevalga sulla forza, e in cui i diritti fondamentali di tutti i popoli siano rispettati e protetti. Gaza deve diventare l'ultimo genocidio del XXI secolo, non il primo di una nuova era di impunità.
La storia ci giudicherà non solo per quello che abbiamo fatto, ma soprattutto per quello che non abbiamo fatto quando avevamo il potere e il dovere di agire. Come ci ha insegnato Arendt, il male non trionfa per la forza dei malvagi, ma per l'indifferenza dei buoni. Non possiamo permetterci di essere indifferenti di fronte a Gaza.

