La problematica emerge con particolare evidenza quando una cooperativa sociale, regolarmente costituita e operante secondo criteri imprenditoriali, gestisce servizi assistenziali presso comunità religiose in forza di contratti di appalto. In questi casi, sorge il dubbio cruciale se applicare il CCNL del lavoro domestico, che disciplina i rapporti con "assistenti familiari addetti al funzionamento della vita familiare e delle convivenze familiarmente strutturate", oppure il CCNL delle cooperative sociali, applicabile alle imprese che operano nel settore socio-sanitario-assistenziale.
La distinzione non è meramente accademica: le differenze retributive e contributive tra i due contratti possono raggiungere cifre considerevoli, con impatti significativi sui costi di gestione delle strutture e sui diritti dei lavoratori.
Come evidenziato dalla giurisprudenza di merito più recente, "l'obbligo di pagamento della quota relativa alle prestazioni sociosanitarie erogate dalle strutture private in favore dei cittadini è posto a carico dei Comuni in forza della normativa contenuta nel D.lgs. n. 502 del 1992".
La Cassazione civile sezione lavoro ha iniziato a delineare i primi principi interpretativi già negli anni '90, stabilendo che "le regole della buona fede oggettiva vanno osservate nelle fasi sia della formazione sia dell'attuazione del rapporto obbligatorio, non solo per i soggetti privati ma anche per gli enti pubblici ed in particolare per quelli previdenziali".
Il decennio 2005-2015 ha visto il consolidarsi di un orientamento che privilegia il criterio del "settore" merceologico del datore di lavoro rispetto alla natura delle prestazioni concretamente rese. La Suprema Corte ha chiarito che "ai fini dell'individuazione della base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali occorre fare riferimento alla contrattazione collettiva nazionale che è maggiormente di garanzia per una parità di trattamento tra lavoratori di un medesimo settore".
Un orientamento significativamente diverso emerge dalla giurisprudenza di merito, che ha valorizzato maggiormente le caratteristiche concrete della prestazione. Il Tribunale di Torre Annunziata ha affermato che "il carattere parafamiliare delle comunità religiose conventuali comporta che l'attività di collaboratrice familiare, cuoca e addetta alle pulizie, svolta alle dipendenze della comunità stessa per le necessità della vita comunitaria, rientri nella fattispecie del lavoro domestico".
Questa pronuncia evidenzia come "non si possano confondere i due piani dello svolgimento da parte dell'Ente di una attività economica organizzata e della gestione della vita all'interno delle case religiose", trattandosi di "situazioni distinte, alla pari di quella di un soggetto che svolga attività imprenditoriale ed al medesimo tempo assuma una persona per i servizi domestici nella propria abitazione".
Gli anni più recenti hanno visto un rafforzamento dell'orientamento prevalente, ma anche significative aperture interpretative. La Cassazione civile ha precisato che "la determinazione del contratto collettivo applicabile non può prescindere dall'analisi della tipologia di attività effettivamente svolta e delle modalità organizzative della struttura".
Particolarmente significativa è la Cassazione sezione lavoro che ha chiarito come "la tipologia dell'attività concretamente svolta e il contenuto professionale delle mansioni costituiscono elementi decisivi per l'individuazione del CCNL applicabile, dovendo prevalere sulla mera natura giuridica del datore di lavoro".
L'art. 2240 c.c. definisce il rapporto di lavoro domestico come quello "che ha per oggetto la prestazione di servizi di carattere domestico", mentre il D.P.R. 31 dicembre 1971 n. 1403 prevede espressamente l'assicurabilità nel settore domestico delle "persone che svolgono prestazione di servizi diretti e personali nei confronti dei componenti delle comunità religiose o militari di tipo familiare".
Il CCNL del lavoro domestico si applica agli assistenti familiari "addetti al funzionamento della vita familiare e delle convivenze familiarmente strutturate", includendo espressamente le comunità religiose che "riproducono nella loro vita di relazione le stesse regole della vita familiare".
La questione assume particolare rilevanza considerando che migliaia di cooperative sociali operano presso istituti religiosi, case famiglia e strutture assistenziali in tutta Italia. L'incertezza normativa genera contenziosi costosi e prolungati, con effetti negativi sia per i datori di lavoro che per i lavoratori.
Dal punto di vista contributivo, l'applicazione del CCNL delle cooperative sociali comporta generalmente oneri maggiori rispetto al lavoro domestico, con riflessi sui costi di gestione delle strutture. Tuttavia, occorre considerare che il CCNL delle coop sociali offre spesso tutele più ampie ai lavoratori, in linea con la natura imprenditoriale dell'attività svolta.
La giurisprudenza più recente suggerisce la necessità di un approccio caso per caso, che tenga conto delle specifiche modalità organizzative e delle caratteristiche concrete della prestazione. Questo orientamento distingue tra:
Come evidenziato dalla Cassazione civile sez. I, "è necessaria una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine e il grado di integrazione raggiunto in Italia", principio che può essere esteso analogicamente alla valutazione delle caratteristiche della struttura assistenziale.
La materia necessita urgentemente di un intervento chiarificatore, possibilmente attraverso un pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione che definisca criteri univoci per l'individuazione del contratto collettivo applicabile. Nel frattempo, gli operatori del settore devono navigare in un panorama normativo complesso, valutando caso per caso le caratteristiche concrete dell'attività svolta e della struttura organizzativa adottata.
La questione tocca aspetti fondamentali del diritto del lavoro e della previdenza sociale, richiedendo un equilibrio tra le esigenze di tutela dei lavoratori, la sostenibilità economica delle strutture assistenziali e la certezza del diritto. Solo attraverso un approccio sistematico e coordinato sarà possibile superare le attuali incertezze interpretative, garantendo maggiore chiarezza e prevedibilità per tutti i soggetti coinvolti.
L'evoluzione normativa degli ultimi anni, con l'introduzione del Codice del Terzo Settore e la riforma delle cooperative sociali, ha ulteriormente complicato il quadro, rendendo ancora più urgente la necessità di una sistemazione organica della materia.
Erik Stefano Carlo Bodda è avvocato del foro di Torino, già iscritto anche a Madrid e Parigi. Ha conseguito il diploma presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali della LUISS e ha operato in Europa, Africa, America latina e Medioriente. È fondatore dello studio legale BODDA & PARTNERS con sedi in Italia e all'estero