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Notizie Giuridiche

» Trasferimento d'azienda e opposizione del lavoratore: una svolta nella giurisprudenza?
23/07/2025 - Francesco Chinni e Sergio Di Dato

La questione: il trasferimento d'azienda e la posizione del lavoratore ceduto

Il trasferimento d'azienda, disciplinato dall'art. 2112 del codice civile, è da tempo oggetto di acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, soprattutto in merito alla sorte del rapporto di lavoro del dipendente coinvolto nell'operazione.

L'orientamento prevalente della giurisprudenza italiana ha, sinora, escluso la necessità del consenso del lavoratore per il perfezionamento del trasferimento, configurandolo come una successione legale nel contratto di lavoro. Tale lettura, affermatasi in nome delle esigenze di funzionalità e stabilità del traffico imprenditoriale, ha tuttavia suscitato perplessità crescenti, soprattutto – come si vedrà - alla luce dell'evoluzione del diritto eurounitario.

Una recente sentenza del Tribunale di Ravenna (pubblicata in data 26 giugno 2025), tuttavia, segna un punto di rottura rispetto a tale impostazione tradizionale.

La vicenda trae origine da un trasferimento di due rami d'azienda (UTP e NPL) da BPER Banca S.p.A. a GARDANT Bridge Servicing S.p.A., che coinvolgeva 116 lavoratori: ben 105 di essi hanno impugnato la cessione, dichiarandosi dissenzienti e chiedendo la prosecuzione del rapporto alle dipendenze del cedente. Il Tribunale, affermando un principio innovativo e conforme al diritto comunitario, ha accolto i ricorsi dei dipendenti.

L'elemento di "svolta" – in controtendenza rispetto alla prassi consolidata – consiste nell'interpretazione, da parte del giudice ravennate, dell'art. 2112 c.c. alla luce delle direttive comunitarie (77/187/CEE, 98/50/CE e 2001/23/CE) e della relativa giurisprudenza. Il Tribunale romagnolo ja ritenuto, infatti, che la norma nazionale, in quanto attuativa del diritto dell'Unione, debba essere letta in modo conforme ai principi eurounitari che pongono al centro la volontà del lavoratore.

La prospettiva del diritto UE: il precedente della CGUE (sentenza Temco)

Come anticipato, il fondamento argomentativo della pronuncia ravennate si rinviene nel diritto eurounitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. In particolare, la sentenza Temco (C-51/00), letta in combinato disposto con le precedenti Katsikas (cause riunite C-132/91, C-138/91 e C-139/91) e Merckx (C-171/94 e C-172/94), ha chiarito che il principio del trasferimento automatico dei rapporti di lavoro è posto a tutela del lavoratore e non può essere interpretato in senso pregiudizievole.

Come affermato nella Temco, "benché il trasferimento del contratto di lavoro s'imponga sia per il datore di lavoro sia per il lavoratore, la Corte ha ammesso la facoltà per quest'ultimo di rifiutare che il suo contratto di lavoro sia trasferito al cessionario". In tal caso, ha proseguito la Corte, "la situazione del lavoratore dipende dalla normativa di ogni Stato membro: o il contratto può essere considerato risolto, nell'impresa cedente, su domanda del datore di lavoro o su domanda del dipendente, o il contratto può continuare con tale impresa".

L'affermazione del diritto di opposizione del lavoratore al trasferimento rappresenta, in tale prospettiva, una coerente applicazione della direttiva 2001/23/CE. Il principio centrale è infatti rappresentato dalla libertà del lavoratore di scegliere il proprio datore di lavoro, che non può trovare un limite in automatismi imposti in modo eteronomo. La direttiva mira a garantire la continuità del rapporto di lavoro solo se il lavoratore lo desidera, ma non può imporgli il passaggio a un nuovo datore contro la sua volontà.

Va inoltre ricordato che la Corte ha affermato in più occasioni che gli Stati membri restano liberi di determinare la disciplina applicabile al rapporto con il cedente, una volta che il lavoratore abbia espresso il proprio dissenso: in altre parole, la direttiva non impone la prosecuzione del rapporto, ma neppure la esclude. Tale principio di neutralità normativa, se ben inteso, apre alla possibilità di costruire soluzioni interne più favorevoli alla tutela del lavoratore, come appunto avviene nella sentenza in esame.

Il caso deciso dal Tribunale di Ravenna: esternalizzazione e dissenso collettivo

Nel caso deciso dal Tribunale di Ravenna, l'operazione di cessione si configura come una classica esternalizzazione di funzioni amministrative. L'accordo tra BPER e Gardant prevedeva la creazione di una piattaforma di "servicing" con la contestuale cessione di rami d'azienda costituiti da lavoratori e pochi asset materiali, come software, smartphone e arredi da ufficio. Il valore economico dei beni trasferiti era irrisorio rispetto al numero dei dipendenti: circa 50.000 euro totali per 116 lavoratori, ossia una media di 431 euro per lavoratore.

Il Tribunale ravennate ha ritenuto che tali rami, privi di autonomia funzionale reale e incapaci di stare sul mercato autonomamente, non integrassero una cessione di azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c. In ogni caso, il Giudice romagnolo ha sottolineato che il dissenso dei lavoratori è idoneo ad impedire il trasferimento dei loro rapporti. Si legge infatti in motivazione che "il 90% dei dipendenti è rimasto estraneo alla cessione di ramo di azienda" conseguendone che "non si è verificata alcuna cessione di ramo di azienda".

La sentenza evidenzia anche come, in tali ipotesi, la nozione eurounitaria estesa di "ramo d'azienda" non possa essere invocata selettivamente, al solo fine di giustificare il passaggio coattivo di lavoratori: quando l'operazione si fonda esclusivamente sulla manodopera, l'opposizione di una parte significativa del personale fa venir meno il presupposto stesso del trasferimento. Non si tratta, dunque, di negare la validità della disciplina europea, bensì di applicarla interamente, considerando anche le garanzie poste a tutela della volontarietà del passaggio.

Conseguenze sistemiche: verso una tutela multilivello effettiva

L'approccio adottato dal Tribunale di Ravenna produce conseguenze profonde, sia sul piano teorico che pratico. In primo luogo, esso impone una rilettura dell'art. 2112 c.c. in chiave conforme al diritto eurounitario: se il lavoratore dissente, la norma non trova applicazione automatica. In secondo luogo, viene rilanciata l'applicazione delle norme generali del codice civile (artt. 1372 e 1406 c.c.), con la conseguenza che il trasferimento del contratto richiede, come in ogni altra cessione contrattuale, il consenso del contraente ceduto.

Come chiarito dalla sentenza, "se non si applica il 1° comma dell'art. 3 della direttiva, non si applica nemmeno il 1° comma dell'art. 2112 c.c., ed il lavoratore (rectius, il contratto di lavoro) non passa al cessionario". Pertanto, in assenza di una norma positiva che imponga la risoluzione del rapporto con la cedente, il lavoratore ha diritto rimanere legittimamente alle sue dipendenze.

La pronuncia si pone in linea con il diritto dell'Unione, che lascia agli Stati membri la libertà di disciplinare la sorte del rapporto in caso di opposizione del lavoratore. Come chiarito dalla CGUE, si ribadisce, "la direttiva non obbliga gli Stati membri a stabilire che il contratto o il rapporto di lavoro continui col cedente. Essa neanche vi si oppone" (Katsikas).

In conclusione, la sentenza del Tribunale di Ravenna non solo riconosce un diritto fondamentale dei lavoratori, ma impone un ripensamento dell'intera disciplina del trasferimento d'azienda, soprattutto nei casi di esternalizzazioni massive. Il principio che ne emerge è chiaro: non esiste alcun automatismo nel trasferimento dei rapporti di lavoro contro la volontà dei lavoratori. La centralità della persona del lavoratore e la sua libertà di autodeterminazione, finalmente, trovano riconoscimento anche nella giurisprudenza interna.

Tale impostazione, se confermata in sede di legittimità, potrebbe avere ricadute sistemiche importanti: non solo in termini di rafforzamento della posizione del lavoratore, ma anche in ordine alle modalità operative delle imprese nei processi di riorganizzazione. Sarà compito del legislatore, entro il perimetro riconosciutogli dalla giurisprudenza europea, recepire e chiarire tali orientamenti, colmando quel vuoto normativo che oggi consente alla giurisprudenza più attenta ai valori costituzionali ed europei di farsi interprete di una nuova stagione di tutela.

[Fonte: www.studiocataldi.it]

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