Il fondamento primario del rapporto di lavoro subordinato risiede nell'elemento fiduciario, che deve necessariamente sussistere al momento della stipula del contratto di lavoro.
L'assenza di tale presupposto, infatti, preclude la costituzione del vincolo obbligatorio, stante il ragionevole timore del datore di lavoro in merito al potenziale inadempimento degli obblighi di correttezza, lealtà, buona fede e diligenza nell'esecuzione della prestazione lavorativa.
Tuttavia, la fiducia, pur inizialmente sussistente, può venire meno nel corso del rapporto a seguito di comportamenti, potenzialmente provenienti da entrambe le parti, che risultano oggettivamente incompatibili con la prosecuzione del rapporto. In tali casi, si ha cessazione del rapporto "per giusta causa".
Il lavoratore, infatti, ha diritto di dimettersi per giusta causa in caso di gravi inadempimenti del datore di lavoro, quali ad esempio condotte di mobbing o mancato versamento di emolumenti retributivi e contributivi. Il datore di lavoro, dal canto suo, pure è legittimato a licenziare il lavoratore per giusta causa a fronte di un contegno del prestatore gravemente rilevante sul piano disciplinare, quali, a titolo esemplificativo, l' appropriazione indebita di beni aziendali oppure forme di violenza fisica e verbale.
Recentemente, la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 4227/2025 (sotto allegata), ha statuito un principio di significativa rilevanza: anche comportamenti antecedenti all'inizio del rapporto di lavoro, sebbene scoperti successivamente, possono costituire giusta causa di licenziamento, qualora compromettano irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
La pronuncia in esame trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente di una società operante nel settore postale, responsabile di reiterate condotte di mancata evasione, sottrazione, occultamento e parziale manomissione di corrispondenza affidatagli nell'esercizio delle sue mansioni. Tali attività illecite, accertate a seguito di un'operazione di polizia culminata nel ritrovamento di ingente quantitativo di plichi postali non recapitati presso il domicilio del lavoratore, risalivano a diversi anni prima, allorquando quest'ultimo era era sempre dipendente della medesima società, ma nell'ambito di un diverso rapporto di lavoro.
Il licenziamento, infatti - formalizzato all'esito del procedimento disciplinare in conformità alle disposizioni del CCNL applicabile – è stato irrogato durante un secondo e distinto rapporto di lavoro, instauratosi a seguito di una procedura di conciliazione novativa.
Avverso il provvedimento espulsivo, il lavoratore adiva l'autorità giudiziaria, contestando la legittimità del licenziamento, adducendo l'estraneità delle condotte al rapporto di lavoro in essere, la conseguente violazione del principio di tempestività e, peraltro, uno stato di stress psicofisico al tempo dei fatti. Il Tribunale di primo grado accoglieva il ricorso, disponendo la reintegrazione del dipendente, mentre, la Corte d'Appello riformava integralmente la decisione, accogliendo l'impugnazione della società.
La Suprema Corte, investita della questione, rigettava il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa. Il Supremo Consesso, richiamando il disposto dell'art. 2119 c.c. e il proprio precedente orientamento (sentenza n. 428/2019), ha statuito che la valutazione della giusta causa di recesso prescinde dalla data in cui i fatti lesivi del rapporto fiduciario si sono verificati e dal momento della loro scoperta.
In particolare, la Corte ha ribadito che "il vincolo fiduciario può essere leso anche da una condotta estranea al rapporto lavorativo in atto, benché non attinente alla vita privata del lavoratore e non necessariamente successiva all'instaurazione del rapporto, a condizione che, in tale secondo caso, si tratti di comportamenti appresi dal datore di lavoro dopo la conclusione del contratto e non compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate e dal ruolo rivestito dal dipendente nell'organizzazione aziendale".
La Corte ha altresì ritenuto irrilevanti le allegazioni del lavoratore relative a presunte difficoltà psicologiche, sottolineando che tali circostanze non potevano giustificare la gravità delle inadempienze contrattuali e dei disservizi arrecati all'utenza, evidenziando la possibilità di ricorrere agli strumenti di tutela previsti dall'ordinamento in situazioni di disagio.
La sentenza n. 4227/2025 della Corte di Cassazione statuisce un principio di diritto di portata generale: la giusta causa di licenziamento può fondarsi anche su fatti antecedenti all'instaurazione del rapporto di lavoro in essere a condizione che la conoscenza di tali fatti da parte del datore di lavoro avvenga successivamente e incida negativamente sulla valutazione dell'affidabilità del lavoratore in relazione alle mansioni assegnate e al ruolo professionale rivestito all'interno della struttura aziendale.
Tale pronuncia, attraverso un'impostazione di carattere sostanziale, sottolinea la centralità dell'elemento fiduciario nel rapporto di lavoro e la sua potenziale vulnerabilità anche a fronte di condotte pregresse, evidenziando la necessità di una valutazione complessiva dell'integrità professionale e dell'affidabilità del lavoratore.
Tuttavia, considerando che il principio è stato applicato esclusivamente in casi in cui le parti di entrambi i rapporti di lavoro erano sempre le stesse, c'è da chiedersi se possa giungersi alle stesse conclusioni qualora i fatti gravi siano avvenuti alle dipendenze di un soggetto diverso dal datore di lavoro attuale.
Ad avviso degli scriventi è preferibile la soluzione negativa, poiché l'estensione del principio sancito dalla Cassazione a ipotesi di condotte avvenute alle dipendente di un diverso datore di lavoro implicherebbe una sorta di "trasferimento" automatico della perdita di fiducia maturata in un precedente contesto lavorativo a una nuova e distinta relazione contrattuale. Tale traslazione, tuttavia, non sarebbe rispettosa della natura personale e specifica del rapporto fiduciario, che si declina diversamente in funzione delle peculiarità del singolo rapporto di lavoro e delle specifiche dinamiche intercorrenti tra le parti attuali.
Inoltre, ammettere la rilevanza di condotte pregresse commesse nei confronti di terzi datori di lavoro potrebbe potenzialmente condurre a valutazioni eccessivamente gravose per il lavoratore, basate su esperienze non direttamente connesse all'attuale impiego, rischiando di inficiare il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fondato sull'adempimento delle obbligazioni contrattuali correnti.
Pertanto, si ritiene che una corretta applicazione della ratio decidendi della sentenza in esame debba essere limitata a contesti di identità soggettiva del datore di lavoro.
Il presente principio di diritto anche in relazione a pregressi rapporti con lo stesso o con altri datori di lavoro, ad avviso degli scriventi non è applicabile, qualora tali condotte siano incompatibili con le esigenze di fiducia sottese al nuovo vincolo contrattuale.