Quello della c.d. Sindrome da Alienazione Genitoriale o da Anaffettività Genitoriale (Parental Alienation Syndrome - PAS) è un tema particolarmente sensibile, non solo per gli interessi in gioco che involgono anche e soprattutto i minori, ma anche per i possibili risvolti che la valorizzazione di questo fenomeno potrebbe avere (e in parte ha già avuto) aule giudiziarie.
Il dibattito ha coinvolto diversi esperti nella comunità scientifica, psicologi, ma anche giuristi, e riguarda, in primis, la possibilità che possa effettivamente parlarsi di una vera e propria "sindrome", circostanza su cui permangono diversi dubbi e che la maggioranza della Comunità scientifica e legale internazionale non ritiene di condividere.
Si ha riguardo alla vicenda di un bambino, allontanato dalla madre e collocato in casa famiglia a seguito delle denunce di violenza a carico del padre. Nonostante di tali violenze avesse parlato chiaramente lo stesso bambino in occasione di alcune dichiarazioni, la Corte d'Appello ha scelto di mantenere l'affidamento del minore al servizio sociale e la sua collocazione in casa famiglia.
La Procuratrice, pur non menzionando espressamente la PAS, evidenzia come il provvedimento impugnato non abbia indicato alcun fatto, circostanza o comportamento tenuto dalla madre e pregiudizievole al figlio, evocando solo concetti evanescenti, come "l'eccessivo invischiamento", "il rapporto fusionale", rispetto ai quali "è impossibile difendersi non avendo essi base oggettiva o scientifica, essendo il risultato di una valutazione meramente soggettiva".
Ancora, la Corte territoriale avrebbe
imputato alla madre "di aver indotto al convincimento che l'interazione con un genitore (la madre) dovesse determinare l'esclusione dell'altro e del di lui ramo familiare".
Diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva
La
Procura richiama, in prima battuta, la giurisprudenza della stessa Cassazione (cfr. Cass. 7041/2013) che in caso analogo ha stigmatizzato "la decisione di sottrarre un bambino all'ambiente materno, con il quale il rapporto - indipendentemente dalla ritenuta condotta "alienante" - non presenta altre controindicazioni, per collocarlo (...) in una struttura educativa".
Successivamente, la stessa giurisprudenza (Cass. 6919/2016) ha affermato che, qualora un genitore denunci comportamenti di allontanamento morale e materiale del figlio da sé a causa dell'altro genitore, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti e deve altresì accuratamente accertare le ragioni del rifiuto del genitore che, nella vicenda in esame, non sono state approfondite in alcun modo.
Pertanto, si ritiene che la decisione impugnata violi "non tanto il principio di bigenitorialità, ma il diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva e di cura con la madre, oltre a violare il suo diritto alla conservazione all'habitat domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, che per giurisprudenza costante deve essere protetto in quanto luogo che maggiormente favorisce l'armonico sviluppo psico-fisico del minore" (ex multis Cass. 32231/18).
La Convenzione di Istanbul e il Codice Rosso
Fondamentale è anche il richiamo alla normativa sovranazionale operato dalle conclusioni depositate dalla
Procura Generale, a partire della Convenzione di Istanbul che, essendo stata ratificata con la legge n. 77/2013, si colloca al di sopra della legge, costituendo "
parametro interposto nel giudizio di costituzionalità", ai sensi dell'art. 117, primo comma, della
Costituzione.
L'art. 31 della Convenzione "impone di escludere non solo l'
affidamento condiviso, ma anche qualunque contatto autore-vittima, nel caso in cui emerga una forma di violenza tra quelle previste dalla Convenzione medesima."
E per la
Procura la Corte territoriale ha violato la norma sovranazionale appena richiamata, nonché la direttiva 2012/29/UE (con specifico riferimento alle vittime vulnerabili come sono i minorenni), omettendo totalmente di approfondire gli episodi di percosse riferiti dal bambino e di verificare gli esiti dei procedimenti penali, seguendo un
vecchio paradigma per il quale giudizio civile e giudizio penale corrono su binari separati.Parametro superato anche dal legislatore italiano che, nel varare il "
Codice Rosso", all'art. 64 bis att. c.p.p ha previsto la
trasmissione obbligatoria dei provvedimenti al giudice civile "ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all'esercizio della responsabilità genitoriale".
Audizione dei minori
Non solo il documento in commento ritiene manchi una qualunque valutazione sulle condizioni psico-fisiche e sociali del bambino, necessaria ad una motivazione sul suo "best interest" non meramente assertiva (cfr. Cass. 3819/20), ma si ritiene anche violato il diritto fondamentale del bambino all'ascolto.
Il diritto vivente (a partire da Cass. SS.UU. 22238/2009 e tra le più recenti conformi Cass. 16410/2020) ha infatti fatto proprio il principio per il quale "
l'audizione dei minori di età che abbiano compiuto i 12 anni o anche gli infradodicenni se capaci di discernimento, già prevista nell'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino e costituisce, pertanto violazione del
principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto che non sia sorretto da espressa motivazione sull'assenza di discernimento che ne può giustificare l'omissione".
Il giudice è dunque tenuto a motivare adeguatamente le ragioni per le quali ritiene di adottare un provvedimento contrario alla volontà chiara e reiterata manifestata dal minore capace di discernimento, mentre nel caso in esame la Corte territoriale non ha neppure riportato in modo sintetico i bisogni, le opinioni, le aspirazioni espressi dal minore, né in alcun modo indicato le ragioni per le quali essi non coincidono con il suo "best interest".
Condizionamenti psicologici
La
Procura ritiene che tale omissione, comunque da censurare, sia probabilmente da ricondursi all'idea, che permea l'intero provvedimento, della "totale adesione" del bambino al pensiero della madre e dunque della inaffidabilità della sua volontà in quanto manipolata.
Tuttavia, "l'irrilevanza di condizionamenti psicologici non provati e non dimostrabili non costituisce solo un punto di vista, che il giudice può adottare o respingere, ma un corollario dell'applicazione della legge e di principi costituzionali definiti dalla Corte costituzionale fondamentali, tra cui il principio di determinatezza" (ordinanza n. 24/2017).
Particolarmente interessante è il richiamo a quanto stabilito dalla Consulta nella
sentenza n. 96/81, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del reato di plagio (art. 603 c.p.), in quanto impossibile da provare l'accertamento del "totale stato di soggezione" di un soggetto ad un altro.
Si tratta di una
sentenza che, si legge nelle conclusioni, esprime un principio che "dovrebbe essere comunque assunto a punto di partenza imprescindibile per l'attività di qualsiasi autorità giudiziaria, ancor di più se la sua decisione può incidere su diritti fondamentali come quelli del minore ai suoi legami familiari, essenziali per lo sviluppo della sua personalità e sulle sue libertà inviolabili".
Ciò in quanto "solo condizionamenti accertabili su un piano scientifico a partire da comportamenti concretamente posti in essere, possono costituire la ragione per confinare nell'irrilevante giuridico la volontà chiaramente e consapevolmente espressa dal minore, che il diritto vivente vuole al centro di ogni decisione che lo riguardi".