Se è vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato alcune "aperture" verso un linguaggio più diretto e "disinvolto", è altrettanto vero, scrivono i giudici, che talune espressioni presentano ex se carattere insultante.
Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si "disumanizza" la vittima, assimilandola a cose o animali. Paragonare un bambino a un "animale", inteso addirittura come "oggetto" visto che il padre ne viene definito "proprietario", per la S.C., è certamente locuzione che, "per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo e scaduto il livello espressivo soprattutto sui social media, conserva intatta la sua valenza offensiva".
Da qui l'annullamento della sentenza e la parola passa al giudice del rinvio.